A Gi - Mina e Celentano se la spassano nel loro nuovo duetto, celebrando il mito che loro stessi incarnano. Il disco di Fedez è autentico, spinto da una reale necessità artistica, al contrario di quello di Arisa, che proprio per questa sua incombente voglia di non essere più Arisa, bocciamo.
Buoni i nuovi singoli di Ermal Meta ed Eugenio in Via di Gioia, rimandata invece Elisa. Divertente l’omaggio di Gualazzi a Buscaglione, molto intenso il disco di Bob Angelini. In zona rap ottimi i singoli di Tony Effe in featuring con Sfera Ebbasta e della crew napoletana SLF. Male Tancredi, Emma Muscat e Giordana Angi, molto bene invece Amber, SVD, CRLN, Ditonellapiaga e Cassandra Raffaele. Chicca della settimana: lo splendido brano di Johann Sebastian Punk.
Mina e Celentano – “Niente è andato perso”
Se la spassano Mina e Celentano, se la spassano dal 1998, da quando hanno deciso di interrompere all’unisono il loro silenzio dall’universo mainstream per giocare insieme con le loro figure di miti assoluti, inarrivabili, di una stagione musicale, televisiva, più in generale italiana, che ad oggi ci suona davvero come un mito assoluto e inarrivabile, roba da libri di epica, Mina e Celentano tra Achille ed Enea. Questo nuovo brano non è di certo all’altezza di “Acqua e sale” e “Brivido felino”, ma nessun brano della loro comune produzione è al livello di “Acqua e sale” e “Brivido felino”, ma fa nulla, a due così basta incrociare le spade per farci un regalo di inestimabile valore.
Potremmo parlare della capacità unica degli artisti di un certo calibro e di una certa generazione, di rendere ogni singola nota totalmente definitiva, di reggere con tale scioltezza un carisma che risulterebbe pesante a chiunque, ma sarebbe come parlare della barba del buon Gesù Cristo, ce l’ha, è evidente, che bisogno c’è di parlarne? Non che sia nostra intenzione scomodare illustri personaggi per mettere in piedi chissà quale confronto, ma Mina e Celentano hanno raggiunto uno status che va oltre l’errore, l’errore non è proprio più un loro problema, gonfio com’è l’immaginario che li accompagnerà per sempre, potrebbero pure scambiarsi barzellette di Martufello e noi avremmo comunque alla fine bisogno di accenderci una sigaretta. Immensi.
Fedez – “Disumano”
“Disumano” è un disco assolutamente autentico, probabilmente il migliore di Fedez, forse anche perché il primo realizzato con un’assoluta consapevolezza di sé, come artista, come persona e come personaggio. A molti Fedez fa simpatia, a molti no, molti lo considerano un influencer, molti un rapper, molti non sanno esattamente né cosa sia un influencer né cosa sia un rapper, ma tutti, e per tutti, lo sappiamo, intendiamo proprio tutti, lo seguono; saprebbero descrivere ogni singolo lineamento del volto dei suoi familiari più stretti, l’arredamento di casa sua, quella fetta non sappiamo quanto grossa, ma certamente più grossa della media, che ha scelto di far diventare il proprio piccolo e funzionale social show.
Fedez ne è perfettamente consapevole e sa benissimo, certamente lo sapeva quando ha ipotizzato l’uscita di un disco, che è questo l’immaginario con il quale si sarebbe dovuto confrontare e che c’è solo un modo per uscirne integro, ed è, appunto, essere autentico. Ancora non sappiamo bene se Instagram farà la fine della Tv, che uno la guarda e non crede ad una sola parola, ad una sola immagine, ma sappiamo che costruire castelli di sabbia con la musica è quasi impossibile, puoi fregarne tanti ma non puoi fregarli per sempre, se progetti la tua arte a tavolino non solo non è arte ma è anche evidente che non sai di cosa stai parlando.
Fedez non ha la necessità di fare musica, non la necessità economica perlomeno, potrebbe starsene in panciolle a casa, gran visir di City Life, a giocare con i suoi adorati pupazzetti vintage, campando di stories insieme al delizioso e divertentissimo Leone, a coccolarsi la piccola Vittoria, prendendo in giro la moglie, come in una versione 2.0 di Casa Vianello, ma molto più perbenista, senza nemmeno il tradizionale italico odio teatrale tra moglie e marito. Se invece decide di mettere sul mercato un disco, un lungo disco (non vedevamo una nuova uscita da 20 pezzi dal ’92), è perché della musica è interprete e amante vero, perché nella musica ritrova ancora la propria essenza come uomo, perché la musica è nonostante tutto ancora il linguaggio preferito per esprimere se stesso.
Lo fa infatti, forse come non lo ha mai fatto meglio, divertendosi, architettando ogni singolo brano con equilibrio e spregiudicatezza, Fedez sfrutta la non pressione del dover fare l’artista a tutti i costi, perché buona parte di chi lo segue nemmeno se lo aspetta, per, in realtà, risultare molto più artista di chi artista si professa di esserlo con tracotante assenza di vergogna.
I brani sono godibilissimi, Fedez, coadiuvato da un team di professionisti di primissimo livello come Davide Simonetta, Paolo Antonacci e Dargen D’Amico, piazza contenuti più disparati all’ombra di una stessa idea di sound, molto più contemporanea e solida rispetto al passato; lo stile con il quale butta giù le barre è più personale, più maturo, più centrato, meglio congeniato.
Anche se non c’è il materiale da tribunale che tutti si sarebbero aspettati, assetati di sangue come sono, Fedez è di sicuro il rapper in Italia che affronta in maniera più diretta la società che vive, colpendo con i muscoli che si ritrova, come in un incontro di pugilato in cui non tutti i pugni valgono un KO, ma si sta lì, si sputa sangue e si combatte. Il rapper da 13 milioni di follower pascola all’impazzata in un recinto molto ampio dove dentro ci rientra tutto, dalle hit che già conosciamo come “Bella storia”, “Bimbi per strada”, “Problemi con tutti” e “Mille” alla sanremese “Chiamami per nome”, fino alle dediche a moglie e figlia in “Meglio del cinema” e “Vittoria”.
Affonda vagamente la lama solo in “Un giorno in pretura”, ma non è niente di più, forse di meno, di quello che si può ascoltare semplicemente seguendo il suo profilo Instagram. In generale “Disumano” è un buon disco, forse qualche hit già ampiamente metabolizzata dal pubblico poteva restarne fuori, forse l’album ne avrebbe guadagnato in concetto, ma probabilmente l’intenzione, questa si totalmente corretta, di Fedez era quella di inquadrare un intero nuovo periodo della propria vita. E lo fa. Bene. Su questo nessuno può dire niente.
Ermal Meta – “Milano non esiste”
Forse l’intento del pezzo, ma si procede a tentoni, era quello di cantare “Milano non esiste” proprio per dimostrare alla fine che in realtà Milano esiste. Ma siccome Milano non esiste davvero, nel senso che l’anima la tiene nascosta dentro i portoni, e rappresenta più un concetto, tra l’altro ormai anche abbastanza farlocco, anacronistico e respingente, allora il pezzo, che è un buon pezzo, diventa un metaforico smutandamento.
Meta, senza cascare in clichè malinconici, mette in musica quell’imbuto di solitudine su cui bordo oscillano brillocci, “apericenizzati”, gli abitanti delle grandi città, quella continua sensazione di corsa verso non si sa nemmeno cosa, quell’angoscia di sprecare tempo appresso alle cose più futili dell’esistenza. Non succede solo a Milano, è chiaro, ma Milano quelle sensazioni le incarna alla perfezione e spesso l’unico modo per salvarsi è, appunto, quell’”esisti solo tu”, qualcuno (ma anche qualcosa) per cui valga la pena quella alle volte snervante sopportazione, qualcuno o qualcosa capace, semplicemente esistendo, di riempirti di tutto ciò di cui “Milano” ti svuota.
Elisa – “Seta”
Intento quasi dichiaratamente radiofonico per Elisa, che molla le sonorità eteree per buttarsi a piè pari dentro una di quelle produzioni che Dardust ormai smazza con la mano sinistra. Niente di entusiasmante, bisogna dirlo, anche se si tratta del lavoro di un team notevole dentro cui formazione, a completare il tridente, troviamo il sempre ottimo Davide Petrella.
Però resta tutto troppo in superficie, è un pezzo che non ti avvolge, che non ti schiaffeggia, potrebbe anche andare benino (non benissimo) perso nel bel mezzo di un disco di un artista “minore”, ma in tutta onestà da Elisa ci si aspetta sempre qualcosa di destabilizzante. Come vedere la Juve vincere a stento uno a zero, sei felice (se sei juventino, è chiaro) dei 3 punti ma al 53esimo minuto già dormivi.
Eugenio in Via di Gioia – “Umano”
Gli Eugenio, con la simpatia e la preparazione che li contraddistingue, sbugiardano la natura spesso sciocca, sempre effimera, della nostra deprimente umanità. Da questo pezzo ne usciamo tutti, a ben ragione, piccoli, ignoranti, disinteressati, totalmente invasi, conquistati e sottomessi da una società che si è imposta sul libero pensiero in maniera subdolamente dittatoriale, dandoci come contentino giusto un abbonamento a Netflix e i quiz preserali della RAI.
Se gli Eugenio non fossero così dannatamente simpatici questo brano potrebbe rappresentare l’ultimo passo verso un oblio oscuro, un imbuto cosmico di negatività spietato e a senso unico, l’epifania secondo la quale ogni nostro singolo respiro è inutile, schiacciati come siamo dalla nostra (dis)umanità. E invece ce la ridiamo. Bravi.
Arisa – “Ero romantica”
Il nuovo disco della più bella voce del pop italiano si sarebbe dovuto chiamare “Porno romantica”, invece Arisa, che è la più bella voce del pop italiano, come ammette candidamente in conferenza stampa, per paura non lo passassero, si è limitata ad alludere all’Ero(tico).
La più bella voce del pop italiano, che si è da poco, discograficamente parlando, messa in proprio con una nuova personalissima etichetta, in modo tale da poter fare e cantare ciò che le pare e piace, si è infilata dentro a sonorità decisamente più contemporanee. Se utilizziamo il termine “infilare” è proprio perché desideriamo mettere in evidenza quanto Arisa e la contemporaneità, e naturalmente ci riferiamo a quella becera da classifica, nonostante lei sia sicuramente la più bella voce del pop italiano, sono due elementi che tra loro c’entrano pochissimo.
In tutto il disco Arisa, la più bella voce del pop italiano, non fa altro in fondo che implorare di essere accolta, accettata, quasi come un’interprete da scena urban cool, come la bambina disobbediente di un immaginario, appunto, quasi porno. Arisa, che è la voce più bella del pop italiano, con questo disco ci dice che non vuol più essere Arisa, quella che, tra l’altro, ha la voce più bella del pop italiano; non vuole più essere quella delle bellissime “Sincerità”, “La notte”, “Controvento”, come se fosse incastrata dentro la carriera di un’altra persona e da dentro carceri sotterranee e polverose ci urli, con tutta la sua voce, che a scanso di equivoci ricordiamo essere la più bella del pop italiano, che lei ormai si è fatta grande, ora si fa le foto zozzarelle su Instagram, incide con l’autotune, come una ragazzaccia.
Non capiamo se sia una deprimente ma fisiologica non accettazione del tempo che passa o davvero il manifesto di una mortificazione crudele da parte del pubblico di una personalità dirompente costretta a ballare il sabato sera in televisione; cosa che, diciamocelo, rappresenta una sorta di resa artistica incondizionata. Sarebbe in ogni caso un peccato, perché Arisa è davvero la voce più bella del pop italiano e alcuni suoi brani, tipo “La notte”, soprattutto “La notte”, l’hanno già resa immortale.
Ecchissenefrega se i ragazzetti non ascoltano più quel genere, chissenefrega se preferiscono alla voce più bella del pop italiano qualche ragazzino che sbiascica trap fatta in casa. “Ero romantica” non è un disco brutto, cioè, lo è un disco bruttino, ma è soprattutto un disco insincero, vagamente sconclusionato, non può essere un caso infatti che quando Arisa, la più bella voce del pop, ci concede una pausa da questo nuovo trend con “Cuore”, la differenza si sente. Ah, per dire, è uno dei pezzi scritti da Giuseppe Anastasi, quello che ha scritto “La notte”. Tutto torna.
Tony Effe feat. Sfera Ebbasta – “Mi piace”
Uno dei punti di forza di questo esercito di ragazzacci della trap che hanno invaso la discografia italiana è certamente la maestria nel maneggiare le più svariate sonorità. Questa “Mi piace”, che va ad arricchire “Untouchable” di Tony Effe, gira su una base che ammicca spudoratamente al dancefloor anni ’70, con tanto di coretti black e fiati. Una gran bella idea, il pezzo ne esce tosto, colorato, intrigante; ok, a volersi soffermare sui contenuti ci sarebbe, per protesta, da incendiare la libreria di casa, correre verso la Garzanti e farsi esplodere.
Ma Drillionaire, che produce questo pezzo, ha fatto un lavoro talmente esemplare che gli concediamo la carta “Uscite gratis di prigione” e oggi ce la balliamo tutti quanti in santa pace, alzando le braccia, senza proferire parola.
SLF feat. MV Killa, Yung Snapp, Lele Blade, Vale Lambo e Geolier – “Ready”
SLF sta per Siamo La Fam e si tratta di una crew formata nel 2019 particolarmente attiva nel territorio di Napoli. Territorio di Napoli che è certamente tra i più intriganti per quel che riguarda la scena urban e questa “Ready” ce lo riconferma totalmente. Questi ragazzi giocano con la loro lingua, la arpeggiano, la rendono meravigliosamente minimal, i cugini più grandi del neomelodico tendevano ad aprirla, a respirarla ampiamente, urlarla contro il cielo, metafora di ammmore e destino fatato; loro invece la schiacciano sull’asfalto, la chiudono, la masticano, la reinterpretano. Tutto molto bello.
Tancredi – “Wah Wah”
Reggeaton in salsa italiota. Arrivati a “Mi fai fare wah wah come Jimi Hendrix” abbiamo pianto copiosamente, miseramente, pensando a quanto tempo abbiamo perso nella nostra vita.
Raphael Gualazzi – “Buonasera, Fred! Gualazzi plays Buscaglione”
Breve EP omaggio a Buscaglione da parte di uno dei nostri più preparati musicisti. Gualazzi mette un po' del suo tocco jazz su brani del repertorio del cantautore torinese, che ne escono rinnovati; dove non arriva l’irripetibile teatralità di Buscaglione arriva il pianoforte di Gualazzi. Tutto molto divertente.
Roberto Angelini – “Il cancello nel bosco”
Bob Angelini, uno dei migliori chitarristi italiani, torna dopo molti anni al cantautorato, mette faccia e voce su canzoni sparpagliate come appunti di un viaggio lontano nel tempo, di quelli che lasciano solo meravigliose cicatrici nella memoria.
Dodici brani nei quali viene fuori tutta la delicatezza dello sguardo di Angelini sul mondo, dove si ferma la pulizia dei brani cantati, portati a casa con il mestiere di chi sa esattamente ciò che fa, arrivano gli strumentali, meravigliosi, che ti regalano un sospiro verso il soffitto, una parete bianca da riempire di flashback, una colonna sonora per la propria intima dispersione dei pensieri.
Big Effe feat. Nerone e Clementino – “O’ faccio buono”
Un omaggio al rap piuttosto fine a se stesso, ma divertente. Soprattutto perché la produzione, pur senza particolari guizzi, spacca; e poi parliamo di tre nomi grossi della scena italiana, tre che il rap l’hanno sempre fatto “buono”.
Boro Boro – “35”
Pezzo piuttosto strano, da un lato il testo, talmente sconclusionato che devi rimettere dall’inizio per renderti conto bene, dall’altro le modalità di esecuzione, così rabbiose che dicono tutto ciò che con le parole non viene detto. È un singolo che mette una gran carica, che restituisce perfettamente quel senso ossessivo di rivalsa in maniera schietta e onesta.
CRLN – “Magone”
Il ritorno di CRLN è un ritorno felice, non solo perché ad avercene di artiste impegnate come CRLN, ad avercene artiste che vengono colte da intuizioni veramente efficaci, come quella partorita già anni fa di un modo di interpretare i brani così minimalista, ai tempi forse compreso poco ma oggi ampiamente richiesto dal mercato.
Con questa “Magone” CRLN va anche più in là, mescola il suo cantato etereo con una sorta di orchestra elettronica dal fascino surreale, quasi nord europeo. La sua voce la ritroviamo ancora una volta capace di scavarci nell’intimo e allo stesso tempo tirarci il cuore per le orecchie fino al cielo. Bentornata.
Fudasca feat. Alfa e Tredici Pietro – “Lentiggini”
I brani con le strofe rap e il ritornello cantato pop non se li è di certo inventati il bravo Fudasca, anzi ora che è diventata merce da mercato è molto più complesso rendere lo schema non solo vincente ma anche memorabile, magari non nell’intera storia della musica, ma perlomeno nei dieci minuti che seguono al primo ascolto.
I tre ragazzi ci riescono con estrema scioltezza, “Lentiggini” è un brano che trasuda schietta semplicità e amore puro verso il proprio mestiere, una narrazione semplice, immediata e tremendamente efficace. Un brano simpatico, che vuole raccontare una storia e lo fa senza sbavature, che risulta sgonfio di quel machismo da quattro soldi, un brano pieno di guizzi, di intuizioni, di intimità buttata sul tavolo con una naturalezza quasi disarmante; un brano che cela un’idea ben precisa e del tutto funzionale. Ottimo lavoro.
Giordana Angi – “Passeggero”
Brano che orbita all’incrocio tra reggeaton e quel detestabile pop televisivo del quale, temiamo, non ci libereremo mai. Una combo micidiale che istintivamente ci spedisce direttamente in un negozio di dischi per acquistare qualsiasi lavoro abbia un teschio sulla copertina. Più che un brano sembra un tentativo, la volontà di forzare le porte del mercato per piacere a più gente possibile, l’equivalente musicale di una mano morta sul bus.
Emma Muscat – “Più di me”
Uno di quei brani capaci di rovinare i weekend di un critico musicale. Zero anima, zero intuizioni, zero ricerca, zero sperimentazione. Zero.
Cassandra Raffaele – “Pietro Mennea”
Per tirare fuori dal cilindro un brano come “Pietro Mennea” serve mestiere, inventiva, un modo di intendere la sacra arte della musica decisamente superiore. Cassandra Raffaele utilizza la figura del corridore Mennea come metafora per raccontare l’eccezionalità dell’uomo, il suo andare avanti nonostante tutto, mettendo un piede davanti all’altro, all’inseguimento di qualcosa che in fondo, precisamente, conosce solo lui. La Raffaele, cantautrice di rarissima raffinatezza, canta su un giro di basso e batteria costante, una marcetta contemporanea ed efficace. È un brano incredibile, complesso, intrigante, come perdersi in un labirinto di suoni e parole ed esserne estremamente felici. Imperdibile.
AINE’ – “Alchimia”
Un disco dalle atmosfere surreali, a metà strada tra soul e R&B all’italiana. Ainè torna dopo due anni di pausa con un disco elegante, ricercato, dove non una nota o una parola vengono buttate via; una piccola perla chiusa in un universo dove tutto ruota in maniera armoniosa e a quel paese quei sound da chart a tutti i costi. Ottimo lavoro.
Ditonellapiaga – “Non ti perdo mai”
Nu Soul dalle frequenze profonde, di quelli che ti fanno vibrare lo stomaco, Ditonellapiaga si conferma interprete di estremo talento, una di quelle voci che non smetteresti mai di ascoltare. Questa “Non ti perdo mai” è scritta con la collaborazione del premio Tenco Fulminacci, ha un sound ricercato, delicato, ma allo stesso tempo pungente; quando la ascolti vola alta sopra la testa, ti sbracci per riacchiapparla ma è sfuggente e pericolosa: ti obbliga alla permeabilità, per tre minuti ogni singolo secondo ti bagna, ti si appiccica addosso, impossibile evitarlo, ti costringe alla riflessione, al ricordo di un tempo che non c’è più, triste o felice che sia, che vorresti scrollarti di dosso, ma non puoi. Un brano intenso, meravigliosamente spietato.
Johann Sebastian Punk – “Oceano di champagne”
Il miglior brano ascoltato questa settimana, di gran lunga. “Oceano di champagne” è un pezzo ricco di anima, è un pezzo che brucia, le schitarrate da indie rock italiano old school non ammaccano la melodia, i sintetizzatori esaltano il sound quasi orchestrale, pieno, definitivo, rigonfio di energia. Wow. No, davvero: wow.
SVD – “Mina e Celentano” Uno scarabocchio musicale ad altissima intensità, uno sfogo ragionato, un rock ritmato, andante, colorato, fresco, allegro, che poi sfocia anche in un rap simpaticamente sbiascicato, umano, coinvolgente. SVD ha 20 anni e canta quell’immaginifico universo adolescenziale, dove suoni, odori, sensazioni, si mescolano, si confondono, pogano nel cervello, nel corpo, nel cuore, vanno in tre in motorino senza casco urlando alla notte. Incastrare questa meravigliosa esplosione dentro un pezzo non è facile, lui ci riesce con una scioltezza invidiabile. Mina e Celentano, proprio nel giorno dell’uscita di un loro nuovo duetto, tradotti in metafore, l’uno metà della mela dell’altro, messo al mondo per bilanciare l’altra metà del cielo; illuminazioni romantiche degne del più sveglio tra i ventenni. Bravissimo.
Amber – “Lose It All”
Una rievocazione perfetta, sublime, intensa, dannatamente divertente, dannatamente pop, di un sound anni ’80 con vaghe sfumature funky che l’universo pop si è ingiustamente lasciato per strada. Amber, cantautrice romana al suo secondo singolo, canta con quella pulizia e intonazione delle grandi interpreti ammmericane. Si tratta di un brano ad alta “danzabilità”, fa fare si con la testa, è irresistibile, non ti molla, scartavetra i muri dei club senza necessariamente risultare televisivo, piatto, vuoto, plastificato. Anzi, è un brano molto serio e molto seriamente pensato e costruito, il regalo di una cantante che abbiamo l’impressione ce ne farà vedere delle belle.