Intervista a Nayt: “Il rap è il mio atto d’amore verso la vita”
a gi - Il nuovo disco di Nayt si intitola “Doom”, che è il contrario di “Mood”, suo precedente lavoro, non una citazione dello sparatutto cult anni ’90.
Ed effettivamente, a pensarci bene, quella che propone Nayt è un’immagine al contrario, il retro di una Polaroid, ma che risulta così regolare e preciso che dovremmo preoccuparci di quanto questo girare nel verso opposto risulti così tristemente fluido.
“Doom” è un disco meravigliosamente cupo, perché in effetti non è che ci sia sto granché da ridere; così quella di Nayt è la fotografia di un disagio, a tratti molto intimo, unico, a tratti coinvolgente, generazionale, democratico se volete, appartenente a tutti, ricollocabile nella stessa aria che respiriamo.
“Doom” assottiglia fino quasi a farla scomparire quella linea che divide il rap dal cantautorato impegnato, si tratta di un progetto artistico vero, congeniato, realizzato, evidentemente, con una consapevolezza adulta, centrata, invalicabile.
Le parole scoppiettano sulle labbra, c’è una grande attenzione al loro suono, cosa che colloca Nayt non solo tra gli esponenti più interessanti della scena rap, ma tra chi, a ben ragione, vuole stiracchiare i limiti del proprio genere, in un’era musicale, quella che stiamo vivendo, in cui i muri si abbattono, non si alzano.
Si tratta di un disco molto delicato, molto confortante, duro, eppure dall’ascolto semplicissimo; ma, più di ogni altra cosa, è un’opera che arricchisce, come solo le grandi opere riescono.
Solo un featuring In tutto il disco, che per i tempi che corrono è come non averne nessuno…
Esatto, ma ormai sta diventando quasi un mio marchio di fabbrica. Se ci penso in “Raptus 3” c’era solo MadMan, in “Mood” solo MezzoSangue e in questo ne ho due in un solo pezzo. In realtà sono contento perché è un feat di enorme qualità e ha un senso, è una scelta artistica ma che si integra a livello poetico nel percorso nel disco. “OPSS” è l’unico pezzo davvero tecnico del disco e secondo me è anche l’unico pezzo in cui ci stacchiamo un po' dai temi non troppo leggeri di tutto l’album, un break da una forte introspezione e si nota sicuramente anche quel divertimento nel creare e fare musica. Il senso di quel pezzo è questo.
Non è neanche un distacco vero in realtà, è un pezzo comunque integrato, è come se sentissi la necessità di una voce esterna alla tua…
Bravo, è proprio un break necessario che comunque segue il filone dell’album.
Un’altra cosa molto interessante del tuo fare rap è l’utilizzo delle parole, non in termini semplicemente di lessico ma di suono delle parole. Sembra frutto di una ricerca specifica, le parole sembrano scoppiettare sulle labbra…
Io ci faccio attenzione e poche volte questa cosa mi è stata detta negli anni. Io sono un sacco interessato, forse ancora prima del significato del termine in sé, al suono delle parole e a come suonano insieme l’una con l’altra. Sono proprio attento alle sillabe che si susseguono e a come suonano e a come formano la frase a livello sonoro. Ormai è una cosa che è diventata una peculiarità spontanea, ci tengo tanto, “io devo farle suonare bene ‘ste parole” è quello che dico sempre a me stesso.
“Cose che non vuoi sentirti dire” potrebbe essere un manifesto del tuo rap, no?
Si, io cerco sempre, in un modo o nell’altro, di essere dissacrante. Nas in un’intervista ha detto: “Il rap nasce dalla necessità di esprimersi, è politicamente scorretto, faremmo un torto all’hip hop se non fossimo così crudi, perché l’hip hop è verità e la verità non si preoccupa di ferire i sentimenti”. Io ho scelto di essere vero anche a costo di ferire i sentimenti, i miei ancor prima di quelli degli altri; non mi interessa, perché questa verità, anche se destabilizza, anche se può portare a queste crisi, a queste belle botte, è finalizzata allo scopo di crescere, di scoprirsi e viversi a pieno. In un modo o nell’altro cerco sempre di esserlo, all’inizio lo ero anche in maniera più superficiale rispetto ad adesso, vediamo come evolverà.
Si cresce e si matura…no?
Si spera.
Ma a proposito del politicamente scorretto che suggerisce Nas, in realtà sembra che si vada verso un’altra strada, perlomeno in Italia. I rapper che puntano sui contenuti sono quasi una rarità, in “Mortale” fai un accenno a questo parlare di una certa porzione della scena rap sempre dei soliti temi legati a soldi, droghe…avverti anche tu alle volte una mancanza di contenuti nel tuo ambiente?
A me, non ricordo chi, mi disse che ad oggi non c’è più nulla di trasgressivo, è tutto fuori dalle righe. E adesso il fuori le righe è la compostezza, dire delle cose con contenuto. Questa trasgressione l’ha tirata fuori nei primi tempi la trap che diceva “io non dico più niente, faccio suonare la roba così, mi ribello non dicendo nulla, intrattenendo gli altri”, ma ormai è già diventata una cosa obsoleta, il periodo storico che viviamo ci mette davanti ad un sacco di cose alle quali dobbiamo pensare invece, quindi quella roba non ci rispecchia più.
Il rap è ancora la lingua della ribellione?
Lo può essere, in certi casi lo è, ma dire che lo è in maniera generica e totalizzante è sbagliato. Perché ormai il rap è tantissime cose, ci sono tantissime influenze diverse, tantissimi approcci, tantissime attitudini diverse…però lo può essere più di tante altre forme d’arte, perchè ha questo potere dell’esplicito, che si trova solo nel rap e a me ha fatto innamorare e ha fatto avvicinare tanti a questa cultura. Ha gli strumenti per esserlo ma forse non vengono utilizzati, non c’è neanche l’interesse nell’utilizzarli.
Tu ti sei mai posto un obiettivo con il rap o la consideri semplicemente la tua forma d’arte?
Ce ne sono stati vari, sono cambiati con il mio crescere. Il rap ti mette molto nel contesto di competizione, proprio per questo modo esplicito di porsi e il risalto che si da alla tecnica, quindi c’è questa grossa competizione, tipo “io sono meglio di te” o addirittura “il mio dj è meglio del tuo dj”
Tipo “Io c’ho il dj più grosso del tuo”…
Esatto, quindi questo approccio mi ha fatto pensare per tanto tempo “Io voglio essere il migliore, devo segnare la storia, devo essere il migliore ad esprimermi, rappare, scrivere cose, comunicare alla gente, emozionare…”. Poi da quando ho cominciato a scrivere “Mood” ho cominciato a pensarla diversamente, ho cominciato a smontare il mio ego, chissà poi se ci sono riuscito, in parte si e in parte no credo; e adesso il mio obiettivo più che altro è esprimere me stesso al 100%, il più possibile, con la maggiore intensità possibile. Questo perché è il mio atto d’amore verso la vita, verso me stesso e verso chi mi circonda, è un cercare di connettersi all’altro, unirsi, stare insieme. Questa è la mia direzione, sembra una roba mistica ma in realtà è molto concreta.
In un mercato così affollato cosa pensi di poter dare in più?
Me stesso. Io sono convinto del fatto che siamo tutti diversi e tutti connessi e tutti speciali a modo nostro. Per me è ovvio, ognuno di noi ha senso di essere qui e di donarsi agli altri. Io posso mettere le mie energie in questo ambiente, posso mettere la mia storia, il mio vissuto e di conseguenza il fattore umano che mi rappresenta e mi identifica. Potrei risponderti in maniera più concreta: io sento di avere un grande intuito ed essere un fanatico matto per la verità e la sincerità, quindi io è questo quello che sento di poter dare in più, senza fare lo spaccone o l’arrogante.
C’è un rapper italiano che ti piace particolarmente?
MezzoSangue, forse perché lo conosco personalmente e stimo molto la sua passione, il suo rispetto per l’arte, che è una cosa che non è scontata. In più da lui ho imparato un sacco di cose, sono cresciuto molto.
Ci andresti al Festival di Sanremo?
Non lo so. Io non mi pongo nessun paletto se c’è il contesto giusto, e mi riferisco a qualsiasi situazione, non solo a Sanremo; se c’è l’arte, se c’è la musica giusta, i fattori giusti per prendere una decisione, io la seguo. Lascio sempre che sia la musica a guidarmi.
Il mondo della musica è stato certamente tra i più colpiti dalla pandemia, alla fine di questi due anni, quando forse (si spera) riconosciamo una luce in fondo al tunnel, che idea ti sei fatto della considerazione che le istituzioni hanno del tuo lavoro?
(Ride) Guarda, è tutto collegato. A prescindere dal governo, è un periodo di decadenza culturale e mancanza di sensibilità su tante cose. Soprattutto in quest’epoca di social ci stiamo allontanando sempre di più da quella che è la vita reale. Non voglio buttarla sul piano “la vita è arte”, però le vere cose della vita non sono il lavoro, i soldi, non sono i social, l’immagine, la forma delle cose, ma la sostanza, quello che abbiamo dentro.
Io mi rendo conto che nella società non c’è sempre il giusto rispetto per l’arte, è come se non ci rendessimo conto di quanto questa roba ci aiuti a non impazzire e non rimanere da soli. Io sono convinto che il modo per stare insieme sempre meglio è quello di parlarci alla pancia, perché se io ti vengo a dire le mie idee, sempre razionali, ci sarà sempre qualcosa su cui discordiamo, ci sarà una struttura diversa perché abbiamo un vissuto diverso, uno spazio diverso in un momento diverso, la cosa che però tutti abbiamo in comune è la coscienza. Quello che mi dispiace riguardo le istituzioni è proprio che non riconoscono il vero valore dell’arte.