AGI - È una giornata positiva per la discografia italiana: tante uscite e quasi tutte molto buone. La musica italiana riparte da Mengoni, esplora i confini del pop con il solito fascino e mestiere; Ghali con “Wallah” ci fa ballare e riflettere, bene pure Loredana Bertè, ancora giovanissima in “Bollywood”. Tre i dischi imperdibili della settimana: quello di Gaia, quello di Nayt e quello di Giorgieness, tutti assolutamente magnifici. Bello il singolo che i ragazzi dei Bloody Vinyl hanno dedicato a “Gomorra”, perfino più bello di “Gomorra” stessa; molto belli anche i nuovi brani di Giorgio Poi, Pier Cortese e della coppia formata da Santoianni e The Andre.
Marco Mengoni – “Cambia un uomo”: La musica italiana riparta da Mengoni, perché i Mengoni servono, serve produzione pop di livello. Lui, che venga accompagnato da un dj di fama mondiale come Purple Disco Machine (al banco regia di “Ma stasera”), o da due fenomeni veri come MACE e Venerus, che invece lavorano alla produzione di questa “Cambia un uomo”, riesce sempre a riassumere nel proprio intendere la musica tutte le nuove sonorità, le nuove possibilità. Non si esiste semplicemente in mano a Mengoni, si brilla; mette insieme tutti e tutto, accoglie viaggiatori che provengono da qualsiasi punto dell’universo, anche dalla galassia sonora più remota, e li integra nella propria visione. Questa “Cambia un uomo” è tanto arzigogolata quanto, al contrario, onesta. Tutto ciò è ottimo, anzi, esemplare.
Ghali – “Wallah”: Ghali un po' si diverte e un po' emoziona, un po' se la ride e un po' ci prende a schiaffi, un po' giocherella con la musica, da mestierante vero, illuminato, e un po' ci tiene a fare arrivare chiaro e tondo un determinato messaggio. Questa “Wallah” è straordinariamente contemporanea nel sound, abbatte barriere culturali nel linguaggio e nei contenuti, viaggia su un binario a parte rispetto a quei colleghi che ancora si sbattono appresso al compiacimento per il consumo di droghe e l’attività sessuale. Che noia. Ghali invece ci spalanca le porte di un mondo nuovo, di un mondo altro, dove è reale e tangibile tutto e il contrario di tutto; prenderle di santa ragione, per esempio, ragionando su temi da sempre cari al rapper, come l’inclusività, e divertirsi ugualmente, da matti, ballandosela come si deve.
Loredana Bertè – “Bollywood”: Seppur resta spiazzante questa gran voglia della Bertè di cantare brani sempre così violentemente attuali, nei quali lei si ritrova sempre un po' fuori contesto, questa specie di piccola hit funziona, è divertente, “ci sta” direbbero i cciovanidoccci. Ma magari potrebbe anche portarsi avanti con qualche ballad più nostalgica, più matura, in cui poter mostrare il suo timbro unico, inimitabile, graffiato, che l’ha resa la Loredana Bertè che noi tutti amiamo con tale trasporto.
Gianluca Grignani – “I bei momenti”: Gianluca Grignani lo amiamo per “Destinazione Paradiso” e “La mia storia tra le dita”, lo stimiamo profondamente per tutto “La fabbrica di plastica”, un disco veramente irripetibile. Irripetibile perché c’era dentro la rabbia del volersi ribellare a qualcosa, come l’esplosione di euforia e sangue quando ci si toglie una grossa spina dal piede. È quella la sua natura, lo ha ripetuto mille volte, l’elettrorock, la roba dura e pura da sala prove sconquassata, tra amici, suonando tra lattine di birra spiaccicate, canne, facendo più casino possibile. Il problema è che adesso Grignani viaggia spedito per i 50 ed è fisiologico che manchi quella verve. Ecco, non è che “I bei momenti” sia brutta, assolutamente, però manca di un’anima onesta, come quei critici musicali classe ‘84 che scrivono per l’AGI che ancora si vestono come Zack Morris; non è che non si può fare, però si rischia anche di non apparire credibili al 100%. Ecco, Grignani cerca di riprendere per la coda quel Grignani, quella versione di se stesso con la metà degli anni. Non può funzionare. Ma che paura c’avranno mai questi personaggi di invecchiare? Mah…
Gaia – “Alma”: “Alma”, come il brano che apre l’album, si, ma anche evidentemente come parola che ne racchiude l’essenza più tangibile, anche se parliamo di anima, la più famosa e presente tra le cose immateriali. Intanto è una parola portoghese, e praticamente metà dell’album è cantato in portoghese, che è la lingua della mamma brasiliana; poi dentro si scorge in maniera nitida l’anima giovane, eterea e affascinante di Gaia. Un disco raffinato, le parole accarezzano delicatamente lingua e labbra prima di finire nelle nostre orecchie, il sound è smaccatamente internazionale, ma non solo perché cantato in parte in una lingua che non è l’italiano, e non solo perché si tratta di un disco molto contemporaneo. Ma soprattutto perché può suonare bene ovunque, in ogni angolo della terra, perché Gaia artista internazionale proprio ci nasce, è proprio nelle sue corde; ha un’idea ben precisa di dove vuole arrivare con il proprio progetto, non è un caso dunque che “Alma” ne disegni un ritratto totalmente autentico e rappresenta forse il miglior lavoro in assoluto mai pubblicato da un artista che il largo pubblico ha conosciuto grazie alla partecipazione ad un talent.
MEDUZA feat. Hozier – “Tell It To My Heart”: Se tanto spazio, a ben ragione, in questi giorni, è stato dato alla conquista degli Stati Uniti da parte dei Maneskin, inspiegabilmente poco ne sta raccogliendo il trio MEDUZA, che non sono gli speaker radiofonici ex Iene, ma tre producer italiani, per la precisione Simone Giani, Luca de Gregorio e Mattia Vitale, che dal 2019, da quando hanno unito le forze nel progetto, hanno sbancato nel mondo della dance. Sono italiani, come Insigne e Damiano, come Berrettini e Sorrentino, ma nessuno esulta per loro. Noi si, anche se non siamo, non più perlomeno, dei grandi ascoltatori di dance (in realtà non lo eravamo nemmeno quando lo eravamo), ma questi lavori elastici, che alternano voci sempre diverse che loro fanno confluire nella propria personalissima matrice, ci piacciono assai.
Slait feat. Low Kidd, Young Miles, J Lord e Shari – “Testamento (la resa dei conti)”: Il brano che la squadra dei Bloody Vinyl dedica alla serie “Gomorra” è anche molto più bello e atmosferico della stessa “Gomorra”. Ci racconta, molto più e molto meglio, l’angoscia di nascere in una condizione irrevocabile, l’impossibilità di ribellarsi ad una natura che è molto più forte di noi, che ci indirizza e ci costringe ad una vita dalla quale fuggire è un po' impossibile, un po' eroico e un po' suicida. Non pretendiamo che chi provenga da luoghi o molto lontani o molto diversi da quelli dove è ambientata “Gomorra”, capisca questa convivenza interna, questa indissolubile appartenenza ad una terra affascinante e maledetta. Ma chi guarda “Gomorra” attratto da sparatorie e storie di spaccio non ci ha capito niente, anche se la serie ha fatto di tutto, a poco a poco, per rendere certi argomenti sempre più ridondanti. “Testamento” invece ci riporta ad una determinata atmosfera, una sensazione di squilibrio interiore, di vuoto incolmabile, un lamento affranto e silenzioso che squarcia in due l’aria, facendoti credere che tutto in un attimo è cambiato, come una magia, e poi non è cambiato proprio nulla.
Aka 7even – “6 PM”: Non ricordo, quante edizioni di “Amici” servono per dimenticarci degli ex concorrenti?
Giorgio Poi – “Giorni felici”: Brano semplicemente meraviglioso che ci conferma il valore, aldilà del recinto indie, di un autore che propone uno stile ben preciso, ben calibrato, di spessore, di carattere. Al contempo Poi è evidentemente un cantautore in via di maturazione, questa “Giorni felici” lo dimostra, c’è più attenzione nella produzione, più mestiere, largo spazio alle intuizioni, certamente tra i lavori migliori di un artista che ne ha già in repertorio di pezzi “migliori”; una sorta di lettera che trasuda amore, dal sapore antico e poi quel verso, meraviglioso, “Dedicami un’ora dei tuoi giorni felici”, che è quanto di più prezioso possediamo oggi. Bravissimo.
Nayt – “Doom”: Disco meravigliosamente cupo, perché in effetti, se ci pensate bene, non è che ci sia sto granché da ridere; così quella di Nayt è la fotografia di un disagio, a tratti molto intimo, unico, a tratti coinvolgente, generazionale, democratico se volete, appartenente a tutti, ricollocabile nella stessa aria che respiriamo. “Doom” assottiglia fino quasi a farla scomparire quella linea che divide il rap dal cantautorato impegnato, si tratta di un progetto artistico vero, congeniato, realizzato, evidentemente, con una consapevolezza adulta, centrata, invalicabile. Le parole scoppiettano sulle labbra, c’è una grande attenzione al loro suono, cosa che colloca Nayt non solo tra gli esponenti più interessanti della scena rap, ma tra chi, a ben ragione, vuole stiracchiare i limiti del proprio genere, in un’era musicale, quella che stiamo vivendo, in cui i muri si abbattono, non si alzano. Si tratta di un disco molto delicato, molto confortante, duro, eppure dall’ascolto semplicissimo; ma, più di ogni altra cosa, è un’opera che arricchisce, come solo le grandi opere riescono. Questo è il nostro futuro. Se facciamo i bravi.
Legno feat. Lo Stato Sociale – “Che sarà mai”: I Legno e i ragazzi de Lo Stato Sociale uniscono i loro impulsi musicali in un divertissment allegro, simpatico, pregno di istantanee di vita comune alle quali le due band (Lo Stato Sociale in questo ci ha abituati da sempre, bisogna dirlo) infondono vita e poesia, che diventano metafore per arrivare a concetti volendo anche profondi. Il brano tratta infatti l’incapacità di rivoluzionare una vita dalle gioie monche; una bella cassa di birra, ma fuori dal frigo, una vita in vacanza, ma con i genitori. Perché in fondo questo ci tocca, forse bisognerebbe sempre provare a prenderla così e trasferirsi in un featuring tra i Legno e Lo Stato Sociale.
Giorgieness – “Mostri”: Che album stupendo, così intenso, eppure così etereo, così morbosamente autentico, eppure così leggero, accessibile, pop. Che Giorgieness fosse un fenomeno lo abbiamo scritto molte volte in passato, ma la bellezza di questo disco supera anche le aspettative più impegnative. Lei ha una voce ipnotizzante, nel disco ti porta a spasso dove le pare, tra ricordi, rimpianti, analisi di rapporti con l’altro o con se stessi, amori naturalmente, che finiscono, è ovvio, ma anche ai quali ci si arrende, dentro il quale si soffoca o si prende aria e luce. Si passa in un lampo dal pop dal sound vagamente elettronico, minimalista, a quello che si apre per lasciare spazio al cantato più melodico e articolato, e Giorgieness se la gioca in bilico tra una barricata e l’altra del genere in souplesse. Grande il lavoro in produzione di Ramiro Lavy (che è anche chitarrista dei Selton), Marco Olivi e Davide Napoleone, che hanno architettato un piano per fare uscire sempre tutta la sensualità, gonfia, pastosa, quasi tangibile, che proprio pesa nelle mani e nel cuore, delle parole e la voce di Giorgieness. Un vero piacere, uno di quei dischi che ascolti e sei molto felice di aver ascoltato. Grande lavoro.
Ensi feat. Silent Bob – “Mai”: Solitamente quando i pezzi rap cominciano con la solita ode alla fratellanza il cursore del mouse si muove autonomamente, istintivamente, verso la freccetta di destra di Spotify, pronta a skippare verso altro. Invece questo pezzo, chissà per quale motivo, riascolteremo molte volte per capire, ci ha interessato.
Boreale – “Caramore”: E se fosse proprio Boreale il primo ad aver capito la bellezza degli anni ’90, che noi stiamo sempre alla finestra in attesa che tornino spodestando queste orrende sonorità del decennio precedente, gli ’80, tornati e ossessivamente rimasti lasciando una traccia che a momenti sembra quasi addirittura più incisiva di quella lasciata dagli ’80 quando ancora erano gli ’80. L’ottima “Caramore”, a prescindere dallo sfogo (pardon), potrebbe anche rappresentare una svolta pop nella carriera di un artista che ha numeri veri.
Celestopoly – “Dracula”: Una passeggiata notturna con un vampiro, elettronica, fumosa, vagamente disperata, certamente alcolica, infatti quella promessa: “Non bevo più”, alla quale non crede nessuno. Celestopoly è un artista interessantissimo, la sua musica è un gioco, una narrazione sempre intensa, sempre surreale, mai noiosa.
Pier Cortese – “Come siamo arrivati fin qui”: Una carezza sul viso, un raggio di sole, delicatezza in musica, un’indagine poetica sui percorsi dell’esistenza, quindi su ciò che siamo, quindi su ciò che vogliamo. Pier Cortese è un cantautore unico nel suo genere, da seguire in quello che fa come i bambini le righe quando imparano a leggere.
Santoianni feat. The Andre – “Forfait”: Gran bel brano sul tempo che passa, con lo sguardo rivolto alla luna, che si fa luce per illuminarlo il tempo, la strada da percorrere, “come i marinai”, per raggiungerla, per conquistarla o più probabilmente per avere una direzione precisa, una di quelle mete che non esistono, un non luogo che ti fa mettere un passo davanti all’altro, che salva da un immobilismo che altrimenti ti peserebbe come fosse cosmico, ancestrale, incontrovertibile. Bravi.
Silent Bob feat. Sick Budd – “Piove ancora”: La pioggia come metafora dei guai attraverso i quali esiste la vita, ma anche come acqua che cade dal cielo per pulire le coscienze e mettere a nudo tesori. Silent Bob è certamente una delle nuove penne dorate del rap all’italiana, non si perde appresso ai soliti clichè, non utilizza la musica, fa musica, che è tutta un’altra cosa. Che poi, quando uno ascolta con un milligrammo di interesse in più, la differenza è sostanziale.
Circolo Lehmann – “Il re delle lepri”: C’è più spazio per la poesia nella discografia italiana? Parrebbe di no, cioè, parrebbe, a scorrere tutte le classifiche delle varie piattaforme, che no, che non si badi più alla struttura dei testi, ma che buttare giù una canzone somigli più ad un gioco, ma poi manchi la profondità per rendere quel gioco, quella semplice sequenza di parole, in qualche modo speciale, in qualche modo brillante, in qualche modo unica. Dopo aver passato diverse ore a porci la domanda, siamo arrivati al punto che una e una soltanto è la risposta corretta: e chi se ne frega? Si, di media questo non è un periodo in cui ci sveniamo intorno ad una narrazione poetica di valore, forse stiamo anche perdendo la capacità di riconoscerla la poesia ma, guarda un po', c’è ancora chi si esalta, chi la ricerca con estrema bramosia. In questo contesto, il disco dei Circolo Lehmann rappresenta una boccata di ossigeno, in un mondo senza poesia loro mettono in piedi un progetto che fa della poesia il proprio punto di forza, in un’epoca di frastuono assordante, di hard rock, hard urban, hard discount, loro rispondono con carezze affettuose. “Il re delle lepri” è un disco molto bello, intellettuale, impegnativo, e sia preso come un complimento, perché qualcuno che punta verso l’alto, invece che sull’usato rappoppizzato sicuro, diamine, ci vuole. Un disco che pulsa di vita, in tutti i suoi aspetti naturalmente, anche malinconici, tipici di chi arriva ad una certa età e si rende conto di averne fatta incoscientemente di strada, un disco che musicalmente esplora tutti i possibili punti cardinali, dal folk al cantautorato puro, concedendo assaggi di pop elettronico e surreale. Un gran bel lavoro insomma.