AGI - Caparezza racconta “Exuvia”: “Non uso egotrip, racconto ciò che sono” “Un rapper invecchia come tutti gli altri, per me è un modello espressivo, sono qui a farlo finché per me avrà senso, non per il pubblico; il pubblico se ti ama pretende che tu lo faccia fino a 90 anni, ma è per me che deve avere senso” In una discografia nella quale si insegue con ferocia una semplicità che alle volte sfiora quasi l’inesistenza, ascoltare un disco come “Exuvia”, l’ultimo di Caparezza, rappresenta una profonda boccata di ossigeno.
Un concept album che in realtà assume più i connotati della pura narrazione, Caparezza butta le carte sul tavolo, si arrende a se stesso, senza menzogne, senza necessità di far finta di essere il rapper combattivo di hit come “Fuori dal tunnel”, “Vengo dalla luna” o “Vieni a ballare in Puglia”, che il pubblico si è ballato come se fossero reggeaton insipidi, filtrandone e cestinandone i contenuti, senza percepirne l’ironia amara, a tratti davvero commovente, di certi pezzi.
In “Exuvia” non ci sono hit, quel Caparezza, per tutta una serie di ragioni che non c’è nemmeno bisogno di spiegare, non c’è più; quindi non andate a chiedere al dj del lido di passarvi niente di questo disco perché probabilmente non saprà nemmeno di cosa state parlando ma, d’altra parte, quante volte in una afosa serata di agosto, gonfi di shot, siete andati ad implorare chi passava musica di farvi ascoltare De André o De Gregori?
Perché di questo stiamo parlando, di una stagione cantautorale, la nostra, decisamente più sfortunata ma non estinta e Caparezza, più e meglio di tutti, è riuscito ad assottigliare fin quasi all’invisibilità la linea che separa il rap dal cantautorato impegnato.
Caparezza tratta la parola con la solita grazia, con una dimestichezza di un mago, con la precisione e l’attenzione di un chirurgo; punta a raccontare prima ancora che a piacere, a turbare prima ancora che scalare una classifica, riempire ancor prima che svuotare, intrattenere, imbambolare.
“Exuvia” è un album che parla di Caparezza senza poter fare a meno di parlare di tutti noi, uno per uno, in maniera intima, decisa, affilata, di uno spaesamento che accomuna chiunque sia stato benedetto da un’ombra di decenza.
“Io ho una visione del concept album un po' più allargata, secondo me se un artista sta componendo in un certo arco della sua vita delle canzoni, anche se sono slegate tra loro (ma non è questo il caso), comunque rientra in un concept che è il tempo che ha vissuto questo artista per scriverle.
"Nel mio caso io ho sempre questa necessità di mettere un recinto alle cose che faccio, perché mi esprimo meglio se ho dei limiti, non riesco a lavorare in assoluta libertà, ovviamente imposta da me, ho bisogno di un argomento che mi sta a cuore in quel momento, che mi faccia rimanere nei ranghi di quell’argomento e che mi permetta di sviscerarlo all’ennesima potenza. Nel mio caso funziona così, ho bisogno di inquadrare le cose”
Qual è la necessità artistica dalla quale è partita la scrittura di questo disco?
“È la non necessità, la figura che più rappresenta in questo momento il mio stato d’animo è quella di Guido Anselmi, protagonista di 8½, una persona che, in quel caso regista, sa che ama fare film, sa che ama il suo lavoro, però ad un certo punto della sua vita, molto probabilmente perché ha superato una fase anagrafica che lo porta inevitabilmente nella curva discendente della sua vita, si ritrova con un sacco di dubbi e di perplessità.
Da un lato con un sacco di aspettative di chi vorrebbe che lui facesse un film capolavoro, gli investimenti di chi vorrebbe questo e le distrazioni tipiche di un uomo che forse si sente quasi a suo agio nell’annegare nei suoi dubbi”
…e tu stai vivendo una fase di questo tipo?
Si, perché ad un certo punto, come Fellini ha deciso di imprimere sulla pellicola cinematografica, il mio pallino era di raccontare questo passaggio dalla spensieratezza to court, in cui conta solo l’obiettivo, quindi conta continuare a fare musica, perseguire l’obiettivo del sogno di gioventù, che non si può mai mollare, e il momento in cui tutto questo di sgretola e non è più soltanto il banale contrasto tra persona e personaggio, diventa proprio un solco profondo all’interno della persona.
Io ho raccontato questo, questo disco stride tantissimo se accostato a Verità supposte, non c’entra niente, sembrano due artisti completamente diversi, un po' perché quelle due persone sono parecchio differenti, giustamente, sarebbe un problema il contrario, un po' perché dopo tutto questo tempo non avevo alcuna voglia di ritornare a scrivere cose già scritte in quella maniera.
Questo sgretolamento nella volontà di far musica potrebbe dipendere da quanto questi anni il meccanismo discografico, sotto tutti i punti di vista, sia totalmente cambiato?
“Si, dipende anche da questo, è uno dei tanti cambiamenti che avvengono. Mi sembra che di anno in anno i cambiamenti accelerino il passo al punto tale che magari ci si può trovare spaesati anche nel giro di un paio d’anni. Tutti i mestieri sono stati coinvolti, è sempre stato così, forse si è accelerato il processo, e questo ci porta a sentirci inevitabilmente spaesati.
Io poi continuo a fare dischi alla vecchia maniera, non ragiono per singoli, non ragiono seguendo il pensiero di chi vorrebbe che io facessi qualcosa, ma seguendo il mio pensiero, quindi questo spaesamento ha fatto il paio con la mia crescita naturale, che mi porta inevitabilmente ad una forma di spaesamento, perché io stesso non riconosco me stesso.
Poi se hai la fortuna di fare un mestiere che ami, cominci a sentirti anche in colpa quando c’è qualcosa che non va anche all’interno di questa sfera, quindi questa cosa comincia a destabilizzarti completamente, ‘Ma come? Era quello che volevi fare per tutta la vita, perché non sto sorridendo? Perché quel ragazzo, che fa un mestiere logorante, sta fischiettando in giro?’. Certe volte io mi ritrovo spaesato naturalmente, anche per questo ho scelto la foresta come simbolo, più spaesato che in una foresta non c’è niente. E per raccontare questo spaesamento ho scelto la città fantasma che è proprio il simbolo di questo spaesamento”
Hai accennato alla maturità, non avendo una lunga tradizione rap in Italia, sono pochi i rapper che vediamo invecchiare, quindi come invecchia un rapper?
Un rapper invecchia come tutti gli altri, per me è un modello espressivo, sono qui a farlo finché per me avrà senso, non per il pubblico; il pubblico se ti ama pretende che tu lo faccia fino a 90 anni, ma è per me che deve avere senso. La grande sfida è questa per chi si trova nell’età adulta: scrivere rap, che comunque è una materia giovane.
Io me ne sono innamorato a 13 anni, e credo che sia una grande opportunità per un adolescente riuscire ad innamorarsi di un genere che è strettamente legato all’uso della parola, all’espressione, al mettersi in gioco con quello che si ha dentro, è salvifico, pur essendo una cultura giovane, relativamente ad altri generi musicali, ha tantissima presa.
Poi il modo in cui lo si fa dipende dalle persone, io lo faccio in questa maniera semplicemente perché non uso gli egotrip, non mi esalto nella scrittura, ma cerco di raccontare quello che sono, non di raccontare che sono migliore ma di raccontare che sono questo. Lo dicevo in una canzone che si chiama Cammina solo, del primo album: “Non rappresento che me stesso, perché questo sono. In questo momento io sono felice che esistano rapper, italiani come Frankie o stranieri come Jay Z, che continuano a rappare portando tutto nel territorio della loro età."
Mi chiedevo quante fosse sottile la linea tra un certo rap e il cantautorato. I rapper sono i nuovi cantautori?
Più che essere i nuovi cantautori, sono anche cantautori, nel senso stretto del termine. Il cantautorato rappresenta tutta la wave degli anni ’70, della canzone impegnata, non per forza politicamente, ma vuol dire che si metteva impegno nel farla.
Adesso il rap è una materia talmente larga che ha tanti sottogeneri, ognuno fa quello che vuole, non necessariamente in contrasto con l’altro, e c’è un confine che straborda e va verso il cantautorato, quasi inevitabilmente, soprattutto se si parla dei cosiddetti ‘liricisti’, cioè quelli che badano al contenuto, lo privilegiano rispetto al flow, quindi si trovano ad amministrare una materia che è anche tipica di un certo cantautorato.
A me personalmente, che tutto si mischi e si fonda, piace, perché secondo me poi rimanere ancorati ad un genere significa rimanere ancorati, a me piace invece smarcarmi, quindi l’idea che un certo tipo di rap possa essere definito anche cantautorato, mi sta bene e sicuramente ci sono degli esempi di rapper che inevitabilmente ad un certo punto fanno il passo dall’altra parte, per sperimentare anche, smussando la tecnica e concentrandosi più sul contenuto.
Tu ti saresti mai aspettato quando hai cominciato che diventasse quello che è adesso?
Io lo speravo, ma non mi ponevo la domanda. Io mi sono innamorato del rap grazie ad un disco dei Run DMC che si chiamava “Raising Hell”, avevo 13 anni poi da lì sono arrivati i Beastie Boys, i Public Enemy e via così…ero un po' geloso, come tutti a quell’età, dei miei ascolti; non lo so perché ci si instaura questa roba qui, che i tuoi ascolti non debbano andare in giro, debbano essere solo tuoi, perché è un innamoramento, come quando sei con una ragazza e ci vuoi stare solo tu, quindi avevo questo imprinting.
Col passare del tempo mi sono chiesto “perché non c’è una versione italiana di questa roba qui?”. Poi è arrivata anche quella, ho comprato il primo disco, degli Assalti Frontali, “Terra di nessuno”, finchè non è arrivato Frankie che con “Verba Manent” ha creato un altro livello. Lì, in quel momento, ho capito che il processo era inarrestabile, e considerando che la materia prima del rap è la parola, secondo me può fare solo bene questa cosa qui. Io sono felice che ci sia tanta parola in giro
Ma questa esplosione forse ha fatto anche un po' male al genere…?
“È naturale che se ti innamori di una cosa ad una certa età, dopo vent’anni, trent’anni, te la ritrovi diversa, succede con qualsiasi cosa, anche con le cose che indossiamo, con le letture che facciamo, con i film che guardiamo…io se dovessi guardare adesso “Lamù”, il cartone animato, lo guarderei con nostalgia, ma preferirei guardare altro, perché naturalmente sono cambiato.
Io cerco sempre di fare un passo indietro su questi tipi di ragionamenti, non mi tiro indietro nel dire cosa mi piace e cosa non mi piace, ma non sto a sindacare su ciò che non mi piace, piuttosto preferisco sponsorizzare quello che mi piace.
Per fortuna cambia sempre tutto e nella musica è una cosa ciclica che accade a tutti i livelli, io non posso dimenticare la lezione del punk alla fine degli anni ’70, quando John Lydon andava in giro con la maglietta “I Hate Pink Floyd”, si era creato questo divario tra musica colta e musica dal basso, in realtà queste sono cose che lasciano il tempo che trovano col passare del tempo, ma sono sempre delle generazioni a confronto, generazioni che stridono l’una con l’altra e quella successiva deve naturalmente, anche volontariamente, dare un po' di fastidio a quella precedente, anche per affermarsi, per dire ‘io sono qui e faccio altro’, poi magari quell’altro è un’evoluzione della cosa prima o in contrasto con la cosa prima, quindi sempre derivativa.
Io osservo con curiosità questo tipo di fenomeni, quando dicevano ‘la trap è tutta uguale’ io rispondevo ‘e il rock degli anni ’50 com’era?’ o ‘la musica pop italiana anni ’80 com’era?’, questa roba del tutto uguale puoi applicarla a qualsiasi cosa, in realtà se entri nel profondo della materia ti accorgi che non è tutto uguale e ci sono delle sfumature. I miei amici metallari mi mettevano davanti un carnet di sottogeneri che non riuscivo ad individuare perché non ero un ascoltatore attento.
A me i processi di cambiamento non spaventano, mi spaventano se sono culturali, non musicali; se c’è un processo di cambiamento per cui la cultura dentro la quale mi muovo, quella della società, diventa peggiore perché regna sovrano il semplicismo, l’interesse della cosa pubblica diventa una scusa per soddisfare la vana gloria del proprio egocentrismo, quello mi spaventa.
La musica è una colonna sonora e anche quando parla di cose che a me non piacciono, e c’è tanta roba che non mi piace, io la difendo comunque, come modello espressivo. Io non sono fossilizzato con la musica della mia gioventù, mi piace ascoltare cose nuove, c’è tanta roba interessante, la devi cercare.
Credi che ci sia una crisi di contenuti nel rap?
È sempre stata così la musica, io col passare degli anni ho riflettuto tanto su questa cosa: c’è qualcosa che fa più rumore di qualcos’altro e solo perché altro fa meno rumore, sembra che non esista. Quel qualcosa che sta lì c’è e magari non è strombazzato, non passa da social a social, non ha il vantaggio dello streaming facile, ma c’è, sta lì.
È sempre stato così, nella musica c’è sempre stato qualcuno che è riuscito a dare un peso maggiore a quello che diceva però non riusciva ad arrivare a tutti come tutto il resto. È un momento in cui c’è Murubutu, che ha una proprietà di linguaggio inarrivabile, Rancore che ha anche la fotta, la sua scrittura è veramente poetica, c’è Claver Gold, c’è Willie Peyote che è diciamo il lato più goliardico di questo modo di fare rap ed è bravissimo anche lui, c’è Mezzo Sangue che è giovanissimo e si impegna tantissimo.
Ci sono anche dei narratori della vita di periferia che sono molto bravi a raccontarla, penso ad un ragazzo molto giovane che si chiama J Lord che ha quella verità…noi però ci facciamo sempre affascinare, abbagliare, succede anche a me, da qualcosa che ci distrae da tutto il resto. Ma noi se vogliamo possiamo dare peso a questo, perché puntare l’arco contro quel flash non migliora le cose, mentre mettere in risalto ciò che di diverso c’è, può essere più trascinante.
Ecco perché mi arrabbio quando vengono fuori dei virgolettati che chiunque mi conosce sa che è impossibile che direi, sarebbe da spocchiosi, me lo posso anche aspettare in questo momento storico in cui sembra che tutti vogliano il sangue e anche quando non lo dai se lo vengono a prendere, però io il sangue non lo voglio dare, me lo voglio tenere.
Chi fa parte del tuo mondo sta assistendo, si spera, alla fine di una crisi che lo ha colpito più di ogni altra categoria della società, che idea ti sei fatto della considerazione che le istituzioni hanno del tuo mestiere?
Inevitabilmente mi sembra che non sia tutelato, mi sembra che sia avvenuto questo. Perché è vero che il Covid è una cosa nuova per tutti, anche per chi sta nel mondo della politica, c’erano delle attenuanti, specialmente all’inizio. Poi ho cominciato a vedere delle ambiguità, ci sono luoghi in cui si può fare assembramento e altri no. È chiaro che c’è qualcosa che non va.
E c’è un’altra cosa che non va: il mondo dello spettacolo è chiaro che non è inquadrato, ci sono delle figure che ancora oggi faticano a trovare un inquadramento. Adesso la pandemia ha tirato fuori questo problema, la mia speranza è che diventi una possibilità.