AGI - Tanto rap tra le uscite pre Festival di Sanremo; Sfera Ebbasta duetta con Lous and The Yakuza, una tra le più importanti esponenti della trap europea, mentre Gigi D’Alessio torna a collaborare con i rapper della sua Napoli. Intrecciano le rime anche Nerone, Gemitaiz e Nitro, così come Blind, Gue Pequeno e Nicola Siciliano. Lo Stato Sociale conclude il folle progetto discografico con l’uscita di “Albi”, un album che la band bolognese completerà proprio sul palco dell’Ariston. Chicca della settimana: il piccolo capolavoro di Nicolò Carnesi.
Lo Stato Sociale
“Albi”: Si conclude con questo album il folle progetto dei ragazzi de Lo Stato Sociale: cinque album, nelle cinque settimane precedenti al loro ritorno al Festival di Sanremo, ognuno di questi affidato alle cure particolari di un membro della band… e non è affatto un caso. “Albi”, è l’unico dei cinque mini progetti formato da quattro canzoni, la quinta la sentiremo direttamente sul palco del teatro Ariston, quando la band chiuderà nuovamente un cerchio che si è aperto proprio su quel palco tre anni fa, inondata da un successo che rischiava, com’è tutto sommato fisiologico, non forse di frantumarli, ma di cambiarne i connotati.
Forse un’altra band avrebbe semplicemente provato a coprire la questione, senza risolverla, con una storia su Instagram, i regaz no, hanno risposto con gli strumenti in mano, facendo quello che sanno fare meglio, ovvero musica dissacrante, anche quando romantica, che trabocca di politica, intesa nel senso più nobile e terreno del termine.
E tutto questo lo ritroviamo in “Albi”, forse ancor più che negli altri quattro dischi. Un riassunto di tutto ciò che sono e fanno i ragazzi de Lo Stato Sociale, un promemoria affinché nessuno, se non la vita, provi più a renderli qualcosa di diverso, un prodotto impacchettato da vendere, da dare in pasto al pubblico per una manciata di like e qualche spicciolo in più. Lo Stato Sociale è una band di amici che fanno musica e in “Albi” ce n’è di validissima, tipo “Fucking Primavera” o “Belli così”, che in certi punti suona proprio come una confessione a cuore aperto, necessaria per chi fosse interessato a conoscere la vera essenza del gruppo, non a comprarla.
Lous and The Yakuza feat. Sfera Ebbasta
“Je ne sais pas”: Lous And The Yakuza, cantautrice e modella congolese naturalizzata belga dal fascino disarmante, è forse colei che prima e meglio di tutti ha capito cosa si cela dietro quel mood amaro e ipnotico della trap. Ha denudato il genere, lo ha reso accattivante, quasi erotico. Accanto a lei anche Sfera Ebbasta si ridimensiona facendo quasi la figura dell’artista.
Che il futuro di questo genere non sia proprio la ballad? Che il destino beffardo non abbia messo in mano ad un branco di finti gangster dell’hinterland milanese un genere che loro hanno utilizzato a sproposito per le loro spacconate, ma che in realtà per funzionare al meglio debba essere ammorbidito in roba da consumati chansonier? Ci piacerebbe un casino.
Gigi D’Alessio feat. Enzo Dong, Ivan Granatino, Lele Blade e Samurai Jay
“Guagliune”: Dite quel che volete, siate liberi di considerare qualsiasi melodia cantata in dialetto napoletano come robetta da cafoncelli terroni, ma questa nuova generazione di rapper partenopei ha cambiato totalmente la prospettiva, ha trovato la propria lingua, il proprio ritmo, il proprio modo di raccontarsi.
E tutto ciò che cantano trasuda onestà, a tal punto che il risultato è di una raffinatezza che i cugini di Milano si sognano la notte e provano a pareggiare con una serie di orrendi tatuaggi sul viso. Bravi loro e ancor più bravo Gigi D’Alessio a giocarci, abbracciarli come fratellini ai quali lui anni addietro con il suo lavoro ha aperto un varco.
Nerone feat. Nitro e Gemitaiz
“Un sec”: Ma quanto è bello quando fenomeni del rap si mettono insieme a giocare con il rap. Quando dietro una canzone non ci intravedi “il progetto”, non ci leggi niente che non abbia a che fare con la voglia di intrecciare le rime, di ritrovarsi come fossero seduti al bar. “Un sec” è divertente, liscia, uno dei motivi per cui il rap oggi è il rap, almeno finchè questo pericoloso clamore non rompa il giochino.
Tormento
“Non è finita qui”: A proposito di storia del rap, l’ex Sottotono Tormento fa uscire quello che è un omaggio al genere, lui che è uno di quelli che in Italia lo ha portato e reso celebre, ancor prima che le piattaforme come Spotify diffondessero quel virus che ha fatto del rap quasi l’unico genere esistente. Si sente l’influenza della old school, l’eleganza delle americhe, per quella che è una dichiarazione d’amore vera, forse più valida per ciò che significa che per come è composta, in quel senso servirebbe una spolveratina.
BLANCO
“Paraocchi”: Sarebbe interessante studiare i motivi per cui il rap in così pochi anni di successo (in Italia) sia capace di sfornare a cadenza regolare giovani fenomeni che nemmeno maggiorenni, come nel caso di BLANCO, riescono ad imporre le loro rivoluzioni ad una scena che ha la capacità di stare ad ascoltarli…mentre il pop resta ancorato ad una classe di 50enni che arrancano faticosamente senza uno straccio di idea.
Questa “Paraocchi” rappresenta uno sguardo sul futuro della musica italiana, può piacere o meno, certamente non è perfetta, certamente sa di acerbo, di spregiudicatezza, di fame di mangiarsi tutto il mangiabile con l’ingordigia tipica dei giovinastri. Ma resta un brano letteralmente imperdibile.
Blind feat. Gue Pequeno e Nicola Siciliano
“Promettimi”: E poi dicono che quelli che escono da X-Factor poi non combinano niente, il giovine Blind per esempio riesce ad incidere forse il più brutto brano rap dell’era d’oro del rap. Mica male. Una roba quasi inascoltabile, peccato il coinvolgimento di uno bravo come Nicola Siciliano.
Nicolò Carnesi
“Virtuale”: Forse la miglior canzone finora ponderata da mente umana sul disagio della società ingolfata dalla rete internet. Una piccola perla, un piccolo capolavoro sfornato da un cantautore che meriterebbe di viaggiare a profondità decisamente più elevate e visibili. Carnesi riesce a tradurre con estrema poesia un’angoscia che si declina in maniera anche piuttosto tangibile, “Quanto è misera la vita negli abusi di allegria” fa esplodere in un attimo le colonne portanti di questo impero del male che regola ormai le nostre vite, è quello che pensiamo quando ci ritroviamo a spiare gli influencer che mangiano e una parte di noi dice “Ma non hai niente di meglio da fare di questo?”…eppure continuiamo. Eccezionale.
Franco Ricciardi
“’O ssaje”: Franco Ricciardi nella classe urban napoletana è senza ombra di dubbio tra i più interessanti, tra quelli che sono riusciti a maneggiare con estro e ricercatezza la materia prima che avevano per le mani. A non perdere quella matrice neomelodica, anzi, rimpastarla, rimodellarla, renderla eterea, allo stesso tempo contemporanea, senza perdere un minimo della propria essenza. Una traduzione a chi non ha nel sangue quello spettacolo senza precedenti che è Napoli. Quindi bravo e quindi grazie.
Laila Al Habash
“Moquette”: Che Laila Al Habash fosse una cantautrice estremamente interessante lo sapevamo, la collaborazione con Niccolò Contessa, negli ultimi anni diventato una sorta di entità astrale che orbita sulle teste della musica indipendente, rende il tutto esplosivo. Contessa centellina i propri interventi, se si è scomodato per due delle tre canzoni di questo album, tra le quali l’ottima “Flambè”, che mette in evidenza i tratti più accattivanti del timbro della giovane Al Habash, vuol dire che ne valeva la pena; e noi non possiamo che essere d’accordo.
Germanò feat. Jesse The Faccio
“Sapiens”: Ci piacerebbe conoscere ogni vicolo di vita intrapreso da Germanò per capire in quale punto uno che scrive e compone così bene come lui, sia stato superato da artisti buoni per la piazzetta del Pigneto che valgono meno del dito mignolo del suo piede sinistro. Perché, in tutta onestà, ascoltando questa “Sapiens” non si può non pensare che Germanò meriti palchi ben più prestigiosi, tipo quello di Sanremo, per dirne uno, che ci viene in mente proprio perché quest’anno ha definitivamente aperto le porte a quel mondo dal quale, perlomeno sulla carta, proviene anche Germanò.
Perché non stiamo parlando di roba dedicata ad una nicchia, stiamo parlando di musica italiana, di quel cantautorato popolare che tutti possono capire ma che ha totalmente cambiato i criteri di selezione, per cui ci ritroviamo a scrivere di una canzone che potrebbe tranquillamente essere proposta in una prima serata televisiva, come se stessimo parlando di chissà quale arguta capriola filosofica di Franco Battiato.
Vorremmo che qualcuno ci rispondesse in maniera chiara e definitiva su cosa rende un pezzo buono per il largo pubblico, perché, da componente del pubblico, mi piacerebbe sentire più “Sapiens”, più brani sensati, più brani ben congeniati, più brani che puntano a dire qualcosa, piuttosto che prodottini impacchettati alla meno peggio che vengono tenuti in piedi da un tot di follower su Instagram.
E se perfino Sanremo è arrivato a fare una selezione decente del panorama indipendente italiano, vuol dire che il suddetto panorama, forte dei suoi Tommasi Paradisi, si sta accartocciando su se stesso, e nella gara tra la tartaruga e la lepre è finita a fare la parte di chi alla fine arriva dopo.
Celestopoly
“Autostrade”: Una delle migliori cose che possano succedere in quest’epoca di affollamenti discografici è inciampare nelle canzoni. È talmente facile per gli utenti ascoltare, condividere, far circolare, che poi di conseguenza è facile anche per chi cerca, trovare. Questa “Autostrade” colpisce, e molto, la perfetta coordinazione tra ciò che è stato scritto, come viene cantato e come viene suonato.
Una lunga melodia che tira per i capelli le parole, come se non potessero essere che quelle parole e cantate solo come un lamento pulito, come se provenissero da lontano, una delicatezza forte, un sapore agrodolce che avvolge. Un debutto coi fiocchi e chi ci inciampa è fortunato. Perlomeno noi ci sentiamo fortunati.