A nche questa settimana vi offriamo le recensioni alle uscite discografiche italiane. Lo Stato Sociale ci racconta l’amore ai tempi del coronavirus, e poi Colapesce, Dimartino e Carmen Consoli ci fanno volare sulla loro Sicilia, Bianconi si conferma l’autore straordinario che è, i Fask regalano un brano confortante in tempi di pandemia, la Dark Polo Gang non riesce a smontare i limiti della trap, i Sick Tamburo ricordano a modo loro Elisabetta Imelio e Lucio Leoni fa uscire un disco di una bellezza sconfinata.
Lo Stato Sociale – “Autocertificanzone”
Forse il brano riguardante questo periodo di tempo surreale più sensato finora prodotto dagli artisti italiani. Non solo perché tenero nella narrazione della storia d’amore che trova sfogo tra gli scaffali di un supermercato, tra due che si scambiano baci al reparto sanitari “per ricordarsi che il mondo non è ancora finito”. Ma anche perché costringe Lo Stato Sociale, che registra il brano chiaramente a distanza, ad una dimensione più spicciola che viaggia tra l’ironia, l’impegno politico e l’amore, che sono i tre campi di gioco dove i ragazzi di Bologna danno il meglio di loro.
Colapesce, Dimartino e Carmen Consoli
“Luna araba”, terzo singolo che anticipa l’uscita del primo attesissimo album in coppia di Colapesce e Dimartino, ci permette di planare sulla Sicilia con loro e la cantantessa Carmen Consoli, una che quella terra, anzi questa terra dato che chi scrive vi scrive al momento dalla terra in questione, l’ha dipinta più volte, nelle sue canzoni. Forse uno dei migliori omaggi degli ultimi anni, un brano/cartolina, foto in bianco e nero, nostalgica, appannata dal tempo e dal sole, che profuma ancora di spiaggia e di acqua salata, ma chiara, pulita, che riesce ad esaltarne bellezza e storia, senza necessariamente scadere nei soliti cliché legati all’isola, senza “svaccare” in quel folklore affascinante fino ad un certo punto, da rispettare fin quando non diventa ossessionante, snervante e, oltretutto, vagamente ipocrita. I tre dimostrano che c’è un altro modo di raccontare la Sicilia ed è quello più schietto, poetico, realistico e funzionale. Un gran bel brano in attesa di un gran bel disco.
Francesco Bianconi – “L’abisso”
Che dire? Quando non ci sarà più nessuno di noi, chi scrive di questa canzone, chi legge di questa canzone e anche chi ha scritto e cantato questa canzone, resterà comunque questa canzone, e probabilmente l’opera omnia di Francesco Bianconi, un autore quasi inarrivabile al momento per quanto concerne la poetica in musica. “L’abisso” è il secondo singolo che anticipa l’album che uscirà l’autunno prossimo e non abbiamo dubbi sul fatto che si regalerà con il garbo che accompagna la sua voce, alla storia del cantautorato di questo paese. Bianconi tocca corde che nemmeno sapevamo di avere, distrugge muri con le parole, si insinua nell’intimo, stuzzica con la punta della penna parti addormentate del cervello e ci lascia imbambolati guardare fuori dalla finestra il grigio sporco del palazzo di fronte.
Fast Animals and Slow Kids – “Come conchiglie”
Un pezzo registrato in situazione di emergenza e pubblicato “per non sbroccare”, così come dichiarano gli stessi membri della band. Si sente effettivamente un senso di necessità nel raccontarsi, nel cercare più un contatto con se stessi che con il proprio pubblico, a tutti i costi. I Fask sono una delle band più interessanti del famigerato circuito “indie”, per quanto ancora valga la parola stessa, e con questo brano lo dimostrano ancora una volta.
Dark Polo Gang – “Dark Boys Club”
Sembra che poi uno vada contro la trap e chi fa trap solo per il gusto di fare la parte del Clint Eastwood che, aguzzando lo sguardo, incattivito, sfoga la sua rabbia su quelli che chiamerebbe “giovinastri”. E allora ad ogni giro si prova a mettersi all’ascolto con l’atteggiamento più positivo possibile; clicchi play e resti lì a sperare che non vada come al solito, ma l’illusione dura pochi secondi, rieccoci in groppa alla solita giostra, la solita narrazione su chi si “schiaccia” quale “bitch”, sulla droga che “non è mai abbastanza” e loro che sono, ovvio, i più fighi di tutti. Non è che uno vuole andare contro sti ragazzi qui o, per l’amor di Dio, contro un genere in particolare, ma alla fine la sensazione è sempre quella di uno scrolling della bacheca Instagram di un qualsiasi sedicenne.
I pezzi, nessuno dei quali arriva a toccare i 3 minuti, cosa significativa, sono pieni zeppi di featuring, nuovo orrendo stratagemma, più da social media manager che da artisti, per andare ad acchiappare anche gli ascoltatori altrui; collaborazioni che, è evidente, non nascono da alcuna necessità artistica, solo matematica spicciola. Il vuoto cosmico in musica, senza alcuna poesia, alcuna illuminazione, alcuno spunto creativo, come se tutto stesse là e non ci si prendesse nemmeno il disturbo di provare a ragionarci su; un vuoto dal quale non riesce a salvarci nemmeno Salmo, che duetta con loro in “Pussy”, che invece è uno che ci saprebbe anche fare, soprattutto quando fa le cose sue, chiaro. I ventisette secondi da ascoltare di tutto l’album (li abbiamo contati) che, ci teniamo a dirlo, risulta essere il loro miglior album della DKP per quanto ci riguarda, sono quelli concessi ad ANNA, la rapper sedicenne che sta sbancando con “Bando”, la sua prima hit. Ventisette secondi di vitalità, di carattere, di robe sensate; non che abbia rappato la Divina Commedia, figuriamoci, ma perlomeno si percepisce che dietro ci sia qualcosa di solido. “Dark Boys Club” esce lo stesso giorno del singolo “False Prophet” di Bob Dylan, blues che anticipa il doppio album del Premio Nobel in uscita a giugno; non che uno voglia mettersi a fare paragoni, solo il pensiero ci farebbe colare il sangue dal naso, ma quando noi nerd comanderemo il mondo lo vieteremo per legge. Giovinastri.
Populous, Myss Keta e Kenjii – “House Of Keta”
Quando lo speaking da discoteca viene scambiato per un testo viene fuori roba di questo genere, dignitosissima dal punto di vista sonoro, per un certo tipo di pubblico in un certo tipo di ambiente. Ci si diverte, e anche molto, ma in mezzo ad una pista, preferibilmente un po' brilli, senza necessità di prestare attenzione a chi col microfono in mano tende semplicemente a voler mantenere alta la temperatura della notte, del proibito e delle consumazioni al bar. Tutte cose che fino ad una certa età possono anche affascinare, poi ci si rende conto che vista una viste tutte (e chi vi scrive ne ha viste tante), ed è un peccato, perché utilizzare una potenza di fuoco così trasversale magari, che so, per veicolare una battaglia anche spudoratamente femminista, sarebbe stato utile, sensato, o anche perlomeno sopportabile. Così è solo un’immagine travestita da canzone, essere cool senza essere niente, una roba che dura un quarto d’ora, cancellata al secondo gin tonic.
Perturbazione – “Io mi domando se eravamo noi”
La band piemontese torna dopo quattro anni di silenzio con un brano che suona come una carezza. Ci fa piacere che i Perturbazione siano rimasti i Perturbazione, ci spiace percepire che il pezzo suoni un po' primo decennio del 2000, quando loro consumano la prima e più importante parte della loro storia, e che corrisponde forse col periodo più buio della storia della discografia italiana finora conosciuta, della quale loro, comunque, rappresentano una garbata eccezione.
Sick Tamburo – “Un giorno nuovo”
Non poteva esserci scelta migliore per ricominciare, nel ricordo costante, rimbalzante, dinoccolato di Elisabetta Imelio. Nemmeno la morte fermerà l’indole alternative rock dei Sick Tamburo, di questo genere, in Italia, sicuramente tra gli esponenti più autentici. “Un giorno nuovo” fa strike tra emozione, commozione e voglia di pogare con l’aria in salotto. Questo erano i Sick, questo resteranno i Sick. Da lassù qualcuno sorriderà.
Lucio Leoni - “Dove sei, Pt.1”
Quello di Lucio Leoni è un album praticamente perfetto. Otto brani che hanno carattere, sputati fuori da una penna illuminata, di un cantautore letteralmente unico nel suo genere. In un momento storico in cui ciò che “va” è sempre più elementare, in cui ormai agli artisti non si chiede nemmeno più una parvenza di intonazione, Leoni sforna un album barocco che esplora le sonorità più disparate: dalla potenza irrefrenabile de “Il sorpasso” alla raffinatezza di “Dedica”, dall’affascinante esercizio linguistico di “Treno” al teatro canzone di “San Gennaro” e “Atomizzazione”, che è un campo di gioco che gli si addice particolarmente (andare ai suoi concerti, quando sarà possibile, per credere).
E poi la perla dell’album, “Mongolfiere”, un brano commovente, straziante, che ti ruba un pezzettino di anima e la spedisce sullo spazio senza risparmiarti scossoni e vertigini. Lucio Leoni non è bravo, è indispensabile, per ricordarci che c’è un modo più profondo e impegnato e poetico di concepire la musica. Grazie davvero.