D i solito è il disco d’esordio a portare il nome dell’artista; come un biglietto da visita, una presentazione, una dichiarazione di intenti. Giuseppe Peveri invece, in arte Dente, ha scelto il settimo e la cosa non è affatto casuale. “Dente”, inteso come titolo dell’album, se non rappresenta una rinascita, rappresenta certamente un punto di svolta, un modo di comunicare di Dente, inteso come l’autore, della sua capacità e della sua voglia di essere anche altro da sé; in questo caso, paradossalmente, proprio sé stesso.
Già perché Dente non c’ha messo solo sette album per decidersi a dare il proprio nome a un suo disco ma anche per confezionarne uno che parlasse di sé in maniera così netta, così schietta. E il risultato è che forse parliamo di uno dei migliori lavori di un artista che acqua sotto i ponti ne ha vista passare. Dente, di questo nuovo panorama cantautorale, l’indie o itpop che dir si voglia, rappresenta una delle colonne portanti, sopra le quali poi si sono edificati gli imperi dei Tommaso Paradiso e dei Calcutta, quelli che sono passati in una manciata di mesi dai club ai palazzetti e dai palazzetti agli stadi. Un pop che poco ha a che vedere con il lavoro estremamente raffinato di Dente, bisogna dirlo, che però raccoglie a piene mani l’eredità dei grandi del passato, quei cantautori che ancora oggi rimpiangiamo con nostalgia. Ecco, in questo caso, Dente ce ne fa sentire molta meno.
Partiamo dal nome, come mai questo “Dente” al settimo album?
“Effettivamente è buffo però l’ho fatto per tanti motivi concatenati. Il primo è perché è un disco molto diverso da quello che ho fatto in precedenza e volevo dare un segno di cambiamento. Avevo chiuso una parentesi, un cerchio, con “Canzoni per metà”, anche rispetto il mio modo di pensare alla musica, con questo ne ho aperto un altro, come se fosse un secondo esordio, un punto e a capo”.
“Dente” è anche il tuo album più identitario…
“Si, assolutamente. E anche per questo la scelta del nome e la faccia in copertina…anche questa è una cosa strana per il settimo disco, non so bene perché l’ho fatto ma mi è venuto di farlo. Crescendo si guardano le cose da un altro punto di vista o ci si ferma a pensare a delle cose che prima non si pensavano; comunque la vita ti porta a fare delle scelte che ti fanno cambiare. Io ho sempre parlato di amore, amore anche disperato, amore finito male o che non vuol finire… Però io quella cosa adesso non la vivo più in quel modo, non so sto soffrendo, sto bene da quel punto di vista, quindi probabilmente bado ad altre cose. Vado un pochettino più lento, mi sono fatto delle domande su altri argomenti, mi sono venute da scrivere altre cose. Ovviamente non mi andava di scrivere un disco di storie d’amore fasulle, pensando “il mio personaggio è quello, la gente vuole sentire da me canzoni d’amore tristi, quindi faccio canzoni d’amore tristi, anche se non lo sono”. No, quello non lo volevo fare”.
Esperimento riuscito, sei comunque rimasto te stesso, nonostante anche la produzione dei brani sia decisamente diversa…
“Questa è stata la cosa più difficile, perché io avevo in mente di fare un cambiamento e c’ho messo tanto tempo per capire come fare. Ho fatto prove di produzione, ho fatto esperimenti, ho fatto ascoltare tanto le canzoni, ho fatto provare a diversi produttori ad arrangiarle, a dare la propria visione. Di una cosa ero convinto: da solo non ce l’avrei fatta, se avessi fatto ancora di testa mia, avrei fatto un disco come tutti gli altri. Alla fine ho trovato Federico Laini che è riuscito a fare il miracolo, fare una cosa che suonasse diversa ma che rimanesse molto identitaria”
Nel momento in cui hai preso una scelta diversa, ti sei posto il problema del pubblico, di quello che avrebbe pensato?
“Assolutamente si, infatti avevo molta ansia. Innanzitutto ho voluto raggiungere un punto in cui io ero soddisfatto al 100%, quando è uscito il primo pezzo ero un po' agitato, ma alla fine la gente mi ha detto “bella la canzone”, cioè ho capito che dopo tutte le pippe che mi ero fatto la gente alla fine, giustamente, riduce tutto a bello o brutto, mi piace o non mi piace, mi emoziona o non mi emoziona; quindi mi sono un po' liberato”.
Il lavoro precedente risale al 2016, quindi quattro anni fa, e sono quattro anni importanti non solo per la discografia italiana in generale ma proprio per quel movimento culturale, il famigerato “indie”, che la tua generazione di cantautori ha contribuito a generare, di cui tu sei uno dei padri. Tu come vedi questa cosa dalla tua posizione?
“Innanzitutto sono contento per loro, che sono stati capaci di passare immediatamente dai piccoli posti sudici ai palazzetti, io nei posti sudici ci sono stato molto più tempo. Io comunque la vedo bene in realtà, perché io da quando ho cominciato a fare musica ho sempre sperato che la mia musica, la musica fatta in un certo modo, non quella scritta a tavolino, potesse un pochettino sfondare quel muro tra mainstream e musica alternativa, che è poi quella che è diventata musica indie, che sta ad indicare una condizione e non un genere musicale, questa è la grande differenza tra dieci anni fa e oggi. Noi eravamo indie perché era la condizione di essere indipendenti, perché nessuno ci cagava, indipendenti perché sennò non riuscivamo a fare i dischi, perché le multinazionali non ce li pubblicavano, per quello eravamo indipendenti. Ma non era un genere, perché Dente, The Zen Circus e Teatro degli Orrori, sono tre cose diverse ma erano tutte indie. Oggi invece la musica indie è diventata veramente un genere, perché se tu ascolti una playlist indie le cose si assomigliano veramente tanto, anche troppo forse. Questo è stato il grande cambiamento: l’indie da condizione a genere, quindi anche di moda. La cosa positiva dell’essere di moda è che è diventato figo andare ai concerti, che oggi è una cosa normale che diamo per scontato ma dieci anni fa non era così normale.
Quindi soddisfatto?
“Mi piace che loro facciano numeri più grandi, è un bene secondo me che sia tornata questa voglia di ascoltare musica italiana, che nel frattempo comunque si è trasformata tanto, anche quella che noi oggi chiamiamo indie. Quando ti dico che mi fa piacere che certe cose siano diventate popolari, lo dico infatti un po' mordendomi la lingua, perché poi queste cose che sono nate genuinamente adesso sono diventate cose scritte a tavolino. È diventata molto roba da hitmaker, si vuole fare il successo, si vogliono fare più numeri del vicino, più numeri di quelli che si è fatti prima, c’è comunque una rincorsa ai numeri, una rincorsa a quella cosa che noi abbiamo cominciato a suonare per combattere… E poi ci siamo finiti dentro tutti quanti, ci ha mangiato”.
Cosa ne pensi del ruolo che sta avendo la musica in questo momento di emergenza che stiamo vivendo?
“Io questa cosa delle dirette non la sto vivendo benissimo perché ritengo che in questo momento ci sia un sovraccarico di intrattenimento, ci siamo fatti prendere un po' la mano, tra un po' apri un social e ci sono più intrattenitori che intrattenuti. Tutti stanno lì a intrattenere e non sai quale diretta seguire perché ce ne sono trenta in contemporanea. E non penso nemmeno che la gente abbia bisogno di tutto questo intrattenimento. Per quanto mi riguarda sono rimasto abbastanza colpito dal fatto che io, un po' contrario al dover intrattenere la gente, perché penso che i miei fan possono tranquillamente vivere e fare delle cose senza la mia presenza, ho fatto questo video che ha avuto un grandissimo successo. Mi ha fatto molto piacere che la gente mi abbia scritto ringraziandomi per la compagnia, per le canzoni che ho fatto sentire in maniera casalinga. Mi ha fatto molto piacere e non me l’aspettavo, pensavo che passasse in sordina, in realtà quindi la gente ha voglia di sentire, ma resto dell’idea che si stia un po' esagerando, che qualcuno sta un po' cavalcando la cosa”.
Anche perché poi c’è il rischio che la gente si abitui, no?
“Si, è molto pericoloso, se ci abituiamo così diventa come la grande lotta che si è fatta fino ad un certo punto sulla musica gratis. La gente voleva la musica gratis e in qualche modo, col tempo, abbiamo trovato un equilibrio tra lo streaming e i pochi diritti che arrivano. Adesso se dobbiamo fare i concerti davanti a un telefono perché la gente si abitua ai concerti gratis, diventa un po' un disastro”
Anche perché altrimenti la musica muore, no?
“Oltre alla questione economica è anche brutto per l’umanità, stiamo andando in una direzione pessima”