S e è vero, come è vero, che la musica italiana negli ultimi anni ha subìto una rivoluzione che non avveniva, così potente, probabilmente dalla metà del secolo scorso, possiamo tranquillamente affermare che una spinta decisiva affinché quella rivoluzione diventasse pop, mercato, regola, establishment discografico, l’ha data Massimo Bonelli;. Produttore, manager, direttore artistico del Concerto del Primo Maggio di Roma e, da qualche giorno, anche scrittore: è uscito in libreria, edito da ROI Edizioni, “La musica attuale”, il suo primo libro. Non un romanzo, attenzione, ma un vero e proprio manuale per chi vuole fare musica, un ritratto preciso dei connotati di questa nuova discografia.
Un libro così ancora non l’aveva scritto nessuno…
“No, perché nessuno si è preso la briga, c’ha avuto il tempo, c’ha avuto la voglia di approfondire, anche in termini tecnici la questione”
Ci racconti come è cambiata la musica attuale?
“Il mondo del digitale, che per quindici anni è stato misterioso, ha rappresentato un momento di crisi; io ho visto i dati di come il mercato discografico dal 2000 al 2014 si è dimezzato in termini di fatturato, passato a livello planetario da 29 miliardi a 14; poi dal 2015 una crescita del 10-15% annui. Nel 2014 c’era un’altra realtà, nel 2015 è successa una cosa che non si spiega fino in fondo; io ho trovato una serie di saggi, di scritti, di blog, soprattutto americani, che spiegano tutto. Perché l’artista nel 90% dei casi, il promoter nell’80%, ragionano ancora con quella mentalità di mercato discografico degli anni ’90…
Quindi radio, tv, disco…
“Esatto…una serie di attività che erano adatte, perfette, per quel tipo di mercato, che non c’è più. Tu continui a comportarti con quel paradigma lì e stai in un altro mondo. Quindi un artista pensa “non ce la faccio”, “non mi va bene”, “i dischi non si vendono”…ma sostanzialmente non si sta confrontando con la realtà, sta ragionando con dei parametri che non esistono più. Io ti spiego com’è cambiato, ho messo insieme tutte queste informazioni che ho raccolto in un flusso, in modo tale che tu artista arrivi alla fine avendo idea di cosa sia in questo momento il mercato e come tu puoi lavorare effettivamente sul tuo progetto e, se c’hai qualcosa di interessante, riuscire a farlo emergere”.
Ed il momento giusto, no?
“Questa è la cosa che mi ha stupito di più, oggi ci sono le condizioni per uscire, per emergere, purché tu abbia qualcosa da dire, un contenuto e un modo di raccontarlo che sia credibile. Se tu racconti falsità o crei artifici attorno alla tua realtà, puoi farcela fino ad un certo punto, se tu riesci ad emergere con la tua verità, entri; e quando sei entrato, se continui ad alimentare questa connessione col tuo pubblico, resti, ce la fai”.
La vecchia discografia non avendo capito in tempo questa rivoluzione, ha creato quasi due percorsi paralleli, il classico mainstream e il cosiddetto “indie”, che per qualche anno non si sono affatto incontrati, anzi, si sono snobbati a vicenda, ma poi i secondi, forti del circuito dei live che si è sviluppato nuovamente e avendo dalla loro più dimestichezza con la rete, ha vinto, no?
“Ha vinto lo streaming, che comunque è un mezzo temporaneo, nel senso che verrà probabilmente superato perché, come tutte le cose, non è eterno; lo streaming non è la fine del percorso. Nel libro uso una metafora: il mercato discografico era un lago in una bella giornata, ad un certo punto un bambino lancia un sasso che provoca le onde, poi arrivano altri bambini che lanciano altri sassi e provocano altre onde. Il mercato digitale è questo, ha scombinato la piattezza del mercato analogico. Quindi noi non sappiamo come si evolverà, però quello che sappiamo è che lo streaming in questa fase ha aperto questa nuova era in cui la musica è tornata ad essere profittevole. Il nuovo meccanismo, che è ancora imperfetto e che sarà sempre imperfetto, perché ogni sistema ha delle imperfezioni, mentre per quindici anni è stato in trend negativo, quindi tutti erano infelici, dall’artista, al promoter, il discografico, la radio, adesso ha reso quasi tutti felici”.
Quasi?
“Gli unici infelici sono gli artisti, anche quelli di successo, perché non avendo compreso fino in fondo quali sono i fenomeni che gli sono capitati, sono rimasti alla vecchia mentalità. Le percentuali che nell’era digitale le case discografiche danno agli artisti, sono rimaste simili a quelle che gli davano nell’era analogica, dove però le case discografiche affrontavano degli investimenti importanti, sia perché dovevano stampare e distribuire quantità industriali di album, sia perché dovevano promuovere degli artisti che erano sconosciuti e dovevano investire in pubblicità. Oggi dato che la vendita non si basa più sulla moneta ma sull’attenzione, cioè l’artista lo valuti in base a quanta attenzione ha attorno, le case discografiche, che sono diventate industrie di intrattenimento, non puntano più su un artista sconosciuto, puntano su artisti che hanno già dimostrato di avere un certo seguito, una capacità di attrarre attenzione. Quindi investono di meno in promozione, perché si ritrovano già dei prodotti ‘semilavorati’ e non hanno più nemmeno i costi industriali della stampa. Se le percentuali non sono state sempre adattate, significa che le case discografiche guadagnano tanto, gli artisti poco. Tutti questi aspetti andrebbero diffusi il più possibile per permettere a tutti di essere in condizioni di poter fare il proprio massimo. Io vorrei che tutti avessero le stesse possibilità”.
Ancora una volta tu assumi un ruolo importante in questa rivoluzione culturale, perché se è vero che quei due mondi, mainstream e indie, per un bel pezzo non si sono mai incontrati, ad un certo punto sei tu a rischiare imponendoli al grande pubblico tramite il tuo Concertone del Primo Maggio… insomma, se ad un certo punto si incrociano è merito tuo.
“Effettivamente il concerto del Primo Maggio ha avuto un ruolo di sdoganamento nazional popolare di un mondo sommerso che comunque stava già spingendo. Ho riportato il concertone a quello che era negli anni ’90, era il concerto delle cose di avanguardia che poi diventavano mainstream, perché negli anni ’90 la situazione era simile a quella di adesso: ci stavano i Bluvertigo, i Marlene Kuntz, gli Afetrhours, gli Almanegretta, i CSI, che ad un certo punto si ritrovano primi in classifica, quando ‘Forma e sostanza” arrivò primo in classifica io mi dissi ‘cavolo, ma allora davvero ce la possiamo fare?!’. Il Primo Maggio intercettava questi fenomeni e li metteva sul palco e li mandava in televisione, così entravi in contatto con quella realtà e andavi ad approfondirla se ti era piaciuta. Secondo me questa è una funzione che il Primo Maggio negli ultimi anni ha riacquisito, me ne accorgo anche dalla quantità di richieste di artisti che vogliono venire, infatti pensavo che quest’anno dovrò litigare con tante persone, perché quando dici no…a me non piace litigare ma inevitabilmente 30 posti c’ho, 60 non li posso mettere, né posso fare il doppio Primo Maggio. Comunque ha questa funzione e dovrà continuare ad averla, quest’anno avrà un’evoluzione importante che si apre anche ad un accrescimento di attenzione per la nuova musica italiana…una bella sfida”.
Sappiamo perfettamente che la parola “indie” ormai non vuol dire più niente, ma rappresenta ancora, come già detto, questa rivoluzione culturale in atto. A questo punto ti giro la domanda che tutti si pongono ormai da un annetto in rete: l’indie è morto davvero?
“Io sono dell’idea che esistano dei cicli. È un po' come in Matrix, quando si svela che Zion periodicamente viene riconquistata e distrutta e vengono liberati nuovi ribelli per farla ricostruire perché il sistema ha bisogno di rigenerarsi. Allo stesso modo le major hanno dei periodi in cui assumono il controllo della situazione; da qui a dieci anni le major riassumeranno nuovamente il controllo, per cui Calcutta che era il re dell’indie diventa uno dei re del mainstream. Poi quando la musica diventa tutta uguale il sistema si satura (e siamo vicini a questa situazione). Per dire, il terribile reggeaton era una forma alternativa di musica caraibica che è diventata poi quella che è…tutte le canzoni c’hanno dentro il reggeaton, è surreale come cosa. È un ciclo, adesso ci sarà un’epoca, forse non lunghissima perché si è accelerato tutto, dove si ristabilirà quest’ordine, e poi arriverà qualcosa che dal basso creerà una nuova ondata di novità, che diventerà a sua volta il nuovo mainstream. Tra tre/quattro anni ci sarà una nuova scena, magari invece di quella romana sarà quella barese, come negli anni ’90 c’è stata la scena napoletana, alla quale poi è seguita la scena milanese…”.
C’è un fenomeno di questa rivoluzione culturale che ti ha particolarmente colpito, sia come gusto tuo personale che come percorso fatto?
“A me piacevano moltissimo i Thegiornalisti, perché quel revival anni ’80, con quel po' di Carboni, quel po' di Venditti, quel po' di Dalla, mi piaceva. Poi a me piace molto la melodia, sono sempre stato un sostenitore del fatto che noi siamo un popolo melodico e non è negativo esserlo. L’italiano tende sempre a minimizzarsi: ‘la melodia fa cagare perché è italiana’, la melodia è la cosa più bella che c’è; le canzoni armoniche, il bel canto, il testo sono le caratteristiche della nostra cultura musicale. Poi andando avanti la produzione sofisticata che ha caratterizzato le ultime cose dei Thegiornalisti e ora quelle di Paradiso mi hanno un po' lasciato meno felice dell’inizio, perché mi appartiene di meno, sento che in qualche modo quella verità che c’era, quel suono precario, incerto, come incerti erano i sentimenti che esprimeva, incerta era la voce, il linguaggio…era rappresentativo di un mondo, di un immaginario. Ora si vede che c’è uno che si mette a casa e cuce bene per vendere bene, questa cosa toglie un po' di verità quindi mi piace di meno, ma sicuramente sono la cosa che mi è piaciuta di più. Poi sono fan de La Municipal, non perché sono loro manager, anche perché è l’unico gruppo del quale sono manager, dopo averlo fatto di Fabrizio Moro, di Marina Rei, di Renzo Rubino, ho capito che è un ruolo di servizio che non riesco a seguire, perché generalmente sono io l’artista purtroppo…però per Carmine lo faccio perché sono proprio fan”.
Quindi se domani bussa alla porta un ragazzo con della musica valida, che ha qualcosa da dire, quali sono i primi tre consigli che gli dai?
“Prima di tutto deve sapere che la domanda che l’utente fa oggi non è ‘quanto costa?’ ma ‘come ti fa sentire?’. Tu non devi vendere ma devi generare attenzione attorno al tuo progetto, questo è fondamentale, questo è il tuo obiettivo. Come seconda cosa ci sono tre elementi che in questa fase sono fondamentali: l’identità, quindi devi trovarla, rimarcarla e farla diventare la tua bandiera e devi essere riconoscibile. Un’identità coerente, non puoi dire ad un certo punto ‘mi faccio biondo’, deve rappresentarti realmente, devi definirla. I contenuti, perché a quell’identità devi agganciare dei contenuti di valore, quello che tu esprimi, sia come artista che come essere umano, deve avere qualità. E poi le relazioni, devi essere in grado di intrattenere delle relazioni sane, vincenti, sia con interlocutori professionali, come promoter, case discografiche, agenti, giornalisti…che con il tuo pubblico. Sono queste le tre chiavi”.
E allora cosa dovrebbe dire un artista quando si presenta?
“Noi in genere quando ci presentiamo diciamo sempre cosa facciamo, noi dovremmo raccontare cosa siamo. L’uscita di una canzone è un passaggio intermedio, è una tappa del viaggio, e va raccontata come tale. Se dici ‘questo è il mio disco’ ti fai del male, perché vendi. Tu devi riuscire a far capire cosa c’è prima e dopo una canzone…è l’umanità, è il messaggio dell’artista che è fatto di tutta una serie di cose che raccontano soprattutto chi è e poi, incidentalmente, cosa fa. Tu non devi vendere, devi semplicemente raccontare una storia”.