I l suo nome è Ghali Amdouni, per tutti semplicemente Ghali. Milanese doc che però non ha dimenticato la sua crescita all’ombra di genitori tunisini nel quartiere milanese periferico di Baggio. Ha raccontato tutto nei due brani con i quali il grande pubblico lo ha conosciuto e subito amato: “Habibi” e “Cara Italia”, rispettivamente oltre 47 e 52 milioni di stream su Spotify, 72 e 115 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Numeri che fanno scopa con quelli di altri colleghi, niente di speciale in questo senso, ma Ghali si è immediatamente messo in evidenza per una caratteristica davvero unica: l’impegno.
Parla di se stesso, certo, come praticamente la totalità di chi fa musica, e anche lui non cela certo la gioia nell’essere riuscito a farcela, a venir fuori da un ambiente che rischia di fagocitarti in un buco nero, ma non ha mai dimenticato di raffinare la propria tecnica, di condire certi concetti con un sentimentalismo che strizza l’occhio al cantautorato più impegnato, che merita analisi, approfondimento, che non prende sempre la solita noiosa scorciatoia, diretta e vuota, ma ti porta nei meandri di un’anima che, evidentemente, esiste, palpita al ritmo dei beat trascinanti della musica.
Sembra niente, invece è tutto. È la differenza. Ha cominciato così Ghali e così sta continuando. Lo si nota senza difficoltà ascoltando “DNA”, il lavoro uscito alla mezzanotte del 21 febbraio. Un lavoro che mostra non solo una maturazione, segno, di nuovo, che dietro c’è sostanza, c’è intelligenza; ma anche la ricerca di una complessità musicale, una sorta di ricerca, di voglia di andare oltre sé stesso.
In cosa ti senti cresciuto?
Sono cresciuto nel metodo di lavoro, nonostante sono rimasto comunque quello di prima. Io sono totalmente disordinato e disorganizzato in studio, vado di fantasia, mi faccio prendere dall’ispirazione, a tal punto che alle volte sembro quasi un viziato. Questa volta però ho scoperto un altro modo di lavorare, nel disco ci sono un sacco di produttori diversi e ogni volta con tutti si lavora in modo diverso. Ho conosciuto più tecniche e finalmente mi sono aperto, perché negli anni passati non lo facevo, mi chiudevo tanto, avevo questo classico fare da rapper che ‘no, scrivo da solo, faccio tutto da solo, devo farcela da solo’, quest’anno invece ho lasciato spazio anche alla creatività di chi mi stava attorno, e non per forza produttori, poteva anche essere un mio amico in studio.
Poi, con umiltà, mi sento molto più consapevole, prima era un ‘sono qui ma non so come è successo’, ora non so come è venuto fuori questo album, perché sono successe talmente tante cose che non so nemmeno dove ho avuto il tempo di scriverlo; però so come è successo: questo album è la conferma che è quello che voglio veramente fare nella vita.
In un pezzo dell’album dici “il successo è una droga”, puoi approfondire meglio questo concetto? Che di questi tempi sembra scontato ma è molto importante…
Il successo è una droga in generale, non solo per gli artisti. Siamo in un momento storico in cui il successo è una droga ovunque, vedi cosa fa la gente pur di avere successo. Gli artisti fanno il 10% d’arte, tutto il resto è trovare dei trick, fare delle cose per fare successo, che magari è arte pure quella: trovare il modo per spingere quel 10% di musica. Ho voluto raccontare questa cosa qui, che vedevo nei film ma che non mi era mai successa; nell’ultimo anno mi è successa, l’ho sentita questa sensazione di droga del successo, ma è una cosa umana. Tu sei coccolato, è incredibile questa cosa qui.
Sono sempre rimasto coi piedi per terra, però ad un certo punto a un ragazzo di 26 anni che si ritrova in questa cosa così grande, così coccolato dal successo. È qualcosa che ti riempie, anche se tu sei abbastanza grande da capire che non è la realtà, ma è talmente forte che quando un pochino se ne va ti lascia la malinconia. Per quello scrivo ‘aumenta la dose se non ti fa più’, così con questo disco sto aumentando la dose.
Tu, in tutta onestà, hai un po' paura che questa droga ti venga a mancare?
Certo, ma più che per me per chi mi sta attorno. Io sono la bandiera di chi mi sta attorno. Ed è brutto vedere una bandiera cadere. Anche se io personalmente sono in un momento della vita in cui non immaginavo per niente il successo che sto riscontrando, nemmeno la metà. E ho fatto questo disco non per bisogno ma perché avevo veramente delle cose da dire, dei sassolini nella scarpa da togliermi, però, te lo dico con tutta sincerità, potrei fermarmi da un momento all’altro. Ho mia mamma vicino, i miei amici vicino, la mia donna vicino, ho comprato una casa… per me che vengo dalla strada, che mettevo il latte fuori dalla finestra perché non avevo il frigo, mi ritrovo oggi con tutto quello che mi serve.
Ma sto capendo che è la mia strada proprio perché, nonostante tutto questo, ho fame, ho voglia di fare e sto bene solo quando faccio arte. Ho scoperto questa cosa qui e potrei fare soldi o non farli, ma continuerei comunque a fare questa cosa fino a quando ne avrò voglia.
Come pensi che la tua arte, il rap, viene recepita dalla nostra società?
Siamo arrivati in un momento in cui finalmente il rap ha preso piede nel paese, ma ci ritroviamo puntualmente, spero ancora per poco, a spiegare a chi non capisce questa cultura che non è nata ieri. Poi non c’è da chiedersi come la prende la società ma come la prende una parte della società, perché la società l’ha presa.
Trovi la mia musica nello spot della Vodafone, della BMW, siamo nelle case, siamo entrati nelle famiglie, nei negozi, ai concerti ci sono genitori e figli, siamo ovunque, e non solo io ma anche i miei colleghi. Io sono un pioniere ma questa cosa qui sta succedendo in Italia e in Europa, e in questo momento ha un suono specifico, ispiriamo pure chi sta fuori, ci chiamano per collaborazioni, per fare più numeri nei loro paesi. È una realtà che esiste, è cultura ormai. Il problema è che ancora adesso lo stiamo tentando di spiegare ad alcune persone.
Ma secondo te ha un ruolo politico?
È religione. Come lo era per me da piccolino lo è per i ragazzi adesso. I politici non stanno in strada ad ascoltare i discorsi della gente, non stanno in mezzo a noi a cercare di capire come funziona. Al giorno d’oggi credo che faccia più politica un rapper dilettante di 17 anni che un politico vero, per come vanno le cose qui in Italia.
Hai detto che hai fatto questo disco perché avevi delle cose da dire, hai la percezione che il tuo pubblico recepisca sempre quello che hai da dire?
No. Alle volte non ho niente da dire, non dico niente, e arriva un messaggio. A volte ho un messaggio e non arriva. A volte voglio dire qualcosa e a volte non voglio dire niente. Però credo che questo album aiuterà il mio pubblico a capirmi di più, anche per i prossimi passi che farò, perché mi spoglio ancora di più rispetto ai miei lavori precedenti e ci sono dei brani in cui faccio capire che faccio musica solo per farla, veramente spontanea e questo si capirà nel disco. Abbiamo fatto davvero quello che volevamo
Riguardo il tour, quell’entrata plateale a Sanremo con la finta caduta dalle scale è una dichiarazione di intenti? Cosa dobbiamo aspettarci?
Vorrei regalare quella sensazione per due ore di fila, lo stesso shock che ha avuto la gente in quel momento lì vorrei riuscire a replicarlo per due ore. Stiamo scrivendo in questi giorni lo show per l’8, 9 e 10 maggio al Fabrique di Milano, stiamo cominciando a buttare giù tante idee, stiamo facendo giornate intere di brainstorming e sarà sicuramente sorprendente. Ci sarà tanto intrattenimento e partirà da prima che entri io sul palco, appena entrati nella venue entrerai nel mondo di Ghali.