C i sono storie che si nascondono meglio di altre. A volte, come in questo caso, nel lato meno conosciuto di un celebre 45 giri. Il famoso lato B. Parliamo di un disco che ha fatto la storia della musica. La data è il 1968. La canzone del lato A si chiama Hey Jude e, fin da subito, ha un successo clamoroso. Le copie vendute superano quota 8 milioni. Dietro quel successo, fisicamente, c’è un’altra canzone, più impegnata e con un messaggio forte a cui John Lennon tiene tantissimo. Si chiama Revolution e, come racconta questo libro, ha una storia molto affascinante. Una storia che, almeno in parte, ha aiutato la Nike a diventare uno dei più importanti e ricchi brand del mondo.
La rivoluzione di John Lennon
Leggere il testo di Revolution è uno dei modi più efficaci per comprendere quello che stava succedendo in quegli anni e quanto, ferocemente, la società desiderasse un cambiamento netto con il passato. Ma accanto a questa analisi, Lennon fa un passo in avanti provando a spiegare in che modo questa rivoluzione dovesse essere messa in pratica. Una tesi precisa che influenzò i giornali e l’opinione pubblica facendo indossare al cantautore inglese un vestito politico che non avrebbe smesso mai più.
“You say you want a revolution. Well, you know we all want to change the world. But when you talk about destruction, don’t you know that you can count me out”.
Per Lennon, insomma, rivoluzione farebbe rima con distruzione solo da un punto di vista meramente linguistico. Le parole della canzone cercano di mettere in guardia su quello che sarebbe potuto succedere se la rivoluzione fosse sfociata in violenza. In quel caso, infatti, sarebbe stato più che lecito tirarsi fuori per non sporcarsi le mani. Il fine, insomma, non giustifica i mezzi.
La canzone fu scritta in India come diversi altri successi dei Beatles. I quattro, all’inizio del 1968, avevano deciso di trascorrere alcuni mesi in mezzo alla giungla, vicino al fiume Gange e ai piedi dell’Himalaya, ospiti di Maharishi Mahesh Yogi. Il santone li aveva convinti a intraprendere un percorso di meditazione trascendentale, alla ricerca della pace interiore perduta. Tutto nacque in Galles, durante un ritiro spirituale del predicatore la cui dottrina poteva rappresentare, per i quattro musicisti di Liverpool, una possibile risposta a quello che stava accadendo in Vietnam e in Cina, a Parigi e a Londra. Quel soggiorno asiatico, però, non si rivelò essere molto fortunato e la loro ripartenza, assai accelerata rispetto alle attese, venne accompagnata da polemiche e retroscena che coinvolsero anche Mia Farrow, forse vittima di alcune attenzioni troppo particolari, sua sorella Prudence (a cui Lennon dedicò una canzone), e altri personaggi di grande rilievo. La verità è che intorno a quel mondo giravano tanti soldi e tanti, tantissimi, interessi.
La rivoluzione dei Beatles
La canzone venne registrata a Londra ma non convinse completamente Ringo, George e Paul. L’arrangiamento originale, chiamato Revolution N°1, (potete ascoltarlo qui) venne considerato poco incisivo e poco commerciale. Così, nonostante la grande preoccupazione di John che temeva si potesse perdere il senso originale del messaggio, la seconda versione acquistò una natura più rock, con chitarre e distorsioni in primo piano. Fu questa la versione che finì nel retro del 45 giri. Infine, per onor di cronaca, è giusto citare anche la terza versione, Revolution n°9, psichedelica e avanguardista, elettronica e sperimentale, costituita da frasi sconclusionate, rumori e intrusioni musicali. Non è difficile, qui, notare le influenze di Yoko Ono nella sua realizzazione. Fu inserita nel White Album, come Revolution N°1, dopo lunghe discussioni con McCartney e il produttore George Martin che erano fortemente contrari.
I commenti dei giornali dell’epoca
Nel presentare il suo libro su The Conversation, Bradshaw ha sottolineato come i due brani, lato A e lato B, furono recepiti in maniera contrapposta dai media radicali, spesso clandestini, dell’epoca. Se Hey Jude venne accolta come un capolavoro, Revolution fu criticata per il tema che si portava appresso. Ramparts, attivo dal 1962 al 1975 in California, attaccò Lennon rimarcando la natura controversa del testo e arrivando a sottolineare come “la rivoluzione stesse predicando la controrivoluzione”. New Left Review, storico magazine britannico, fu ancora più audace: “a lamentable petty bourgeois cry of fear”. Roba da radical chic, da borghesi impauriti e lamentosi. Village Voice e Berkeley Barb accusarono, seppur velatamente, Lennon di opporsi a un movimento che provava, per davvero, a cambiare il mondo. Il commento più strano e divertente che viene riportato all’interno di Advertising Revolution però è quello di Black Dwarf, giornale leninista che sopravvisse dal 1968 al 1972, e che divenne famoso anche per la pubblicazione dei diari boliviani di Che Guevara.
La recensione della canzone fu netta e impietosa: “non è più rivoluzionaria del diario della Signora Dale”. Ok, neanche io sapevo a cosa si riferisse. In poche parole: si tratta del primo programma “seriale” radiofonico della BBC, iniziato dopo la guerra e incentrato sulla figura di questa donna, moglie di un medico, che raccontava, ogni pomeriggio, la sua vita, anticipata da un’arpa. Oltre 5 mila episodi, per circa vent’anni di messa in onda, con alcune puntate dedicate a temi controversi come l’omosessualità. Non il paragone migliore per una canzone portatrice di messaggi forti e critici e che non usciva dalla bocca di una donna borghese di mezz’età.
La rivoluzione della Nike
Se l’esordio fu così negativo, gli anni successivi non migliorarono la situazione. La canzone non fu quasi mai inserita nell’olimpo delle hit dei Beatles pur venendo apprezzata per la sua valenza storica. Nel 1987 però qualcosa cambiò. John Lennon era morto da sette anni quando Revolution, improvvisamente, ritornò agli onori delle cronache. Tutto grazie a un video di uno spot e a una piccola agenzia pubblicitaria, Wieden + Kennedy, che la scelse come colonna sonora. Il cliente era la Nike e questo fu il risultato finale.
La campagna mediatica riuscì a coinvolgere anche Yoko Ono che accettò di condividere il messaggio di John Lennon dopo vent’anni. La motivazione alla base del suo assenso fu quella di far conoscere lo spirito rivoluzionario e l’indole politica di quel testo alle nuove generazioni. Una fonte d’ispirazione, insomma, che travalicasse il tempo e si adattasse a nuove battaglie. Revolution fu così concessa in licenza per una cifra, scrive Bradshaw, tra i 7 e i 10 milioni dollari. In verità, non tutto andò così liscio. Ci fu una causa legale e, nel 1988, un accordo tra le parti i cui termini sono rimasti segreti. L’unica cosa certa è che nessuna canzone dei Beatles sarebbe stata più utilizzata per scopi simili. Lo spot, però aveva già fatto il suo dovere facendo decollare le vendite, raddoppiate in due anni, e consacrando il marchio dell’azienda di articoli sportivi. Nel 1991, la Nike deteneva il 29% del mercato mondiale delle scarpe da atletica e le sue vendite avevano superato i 3 miliardi di dollari.
I protagonisti dello spot
Se guardate con attenzione il video noterete che c’è una forte commistione tra superstar famosissime e atleti dilettanti. E sono queste immagini, nel ritmo della loro successione, a colpire chi guarda. Ci sono scene quotidiane di cittadini normali che nuotano o corrono, ma anche il talento giovanile di Michael Jordan e la forza espressiva di John McEnroe. Il tennista, come scrisse Rolling Stone, si arrabbiò per il montaggio e per la scelta delle immagini da parte di Greif e Kagan, i due registi. Il motivo? Avevano scelto una partita di esibizione mentre McEnroe pretendeva di vincere sempre, anche all’interno di uno spot. “He fucking hated me” commentò Kagan (e non credo ci sia bisogno di tradurre).
Quella pubblicità, come ovvio, non piacque a tutti. La rivista TIME, ad esempio, ci andò giù pesante e cercò di difendere John Lennon da un’operazione che non gli rendeva il giusto omaggio: “Mark David Chapman lo ha ucciso. Ma ci sono voluti un paio di dirigenti discografici, un’azienda di sneaker (tipo di scarpa, ndr) e i suoi fratelli più cari per trasformarlo in uno scrittore di jingle”. New Republic, invece, accusò la Nike di “distruggere il significato originario della canzone”.
E a pensarci bene, quest’ultimo giudizio non è totalmente sbagliato. Più che distruggere, traslare o riadattare. Certo, si tratta di scarpe, ma quello fu un momento in cui si mise in atto un meccanismo davvero rivoluzionario. Sì, perché indossando lo stesso modello portato da Michael Jordan, chiunque poteva infrangere i propri limiti e tagliare traguardi che sembravano impossibili. Il vero significato dello sport non è, del resto, quello di porsi degli obiettivi e fare di tutto per raggiungerli? Bradshaw scrive che quello spot, con quella canzone, contribuì a normalizzare l’uso quotidiano delle scarpe sportive. Un’abitudine da consumatori che ci portiamo dietro da trent’anni in attesa, forse, di una nuova, criticatissima, Revolution.