AGI - "Si può accettare Hollywood qual è, come facevo io, oppure ignorarla con il disprezzo riservato a ciò che non riusciamo a capire. Si può anche capire, ma solo confusamente e a tratti. Non più di cinque o sei uomini sono riusciti ad avere ben chiara nella mente la formula perfetta dell'industria del cinema". Si affida alle parole di Francis Scott Fitzgerald nel suo capolavoro incompiuto 'Gli ultimi fuochi', racconto autobiografico della mecca del cinema americano negli anni '20 e '30, il critico americano David Thomson, uno dei maggiori d'America, nel suo bellissimo 'La formula perfetta - Una storia di Hollywood' scritta nel 2004 e pubblicata per la prima volta in Italia (Edizioni Adelphi - pagg. 582, prezzo 34 euro) per spiegare il senso di questo volume che ripercorre la storia dell'industria nata per caso dall'intuizione dei fratelli Lumière e diventata negli anni una forma d'arte, la più giovane e la più precaria.
Thomson cita a più riprese ampi spezzoni del romanzo che Fitzgerald ha scritto ispirandosi alla sua esperienza a Hollywood, dove era stato più volte chiamato e poi licenziato per intervenire su varie sceneggiature, non ultima quella di 'Via col vento', descrivendo personaggi ispirati a figure di illustri produttori o sceneggiatori sfortunati come lui che regnavano a Hollywood, personaggi leggendari come Louis B. Mayer o Irvin Thalberg (produttori che hanno ispirato i personaggi di Pat Brady e Monroe Stahr, mentre lo stesso Fitzgerald si immedesima con George Boxley). L'autore parte dalle vicissitudini produttive di 'Chinatown', dalle divergenze artistiche tra il regista Roman Polanski, lo sceneggiatore Robert Towne e il produttore Robert Evans, per poi ricostruire la storia del cinema americano dai primi del Novecento fino a 'I cancelli del cielo' di Michael Cimino.
Uscito in Italia praticamente insieme al film di Damien Chazelle, 'Babylon', in sala in Italia da oggi, che racconta le origini del cinema muto e la trasformazione avvenuta con l'avvento del sonoro in maniera fantastica e avvincente, diversa dalla narrazione comune della Hollywood affascinante e ricca di talenti e artisti, anche il libro di Thomson è originale e spietato. Scritto in maniera eccelsa, 'La formula perfetta' ripercorre le vicende delle origini del cinema in America, a partire da quella 'Hollywood Babilonia' raccontata nel celeberrimo libro di Kenneth Anger. Lo fa senza indulgere in dettagli scabrosi nè compiacersi degli eccessi e delle follie di un mondo appena nato e subito fuori controllo.
Malgrado sia considerato uno dei più grandi critici cinematografici viventi, Thomson non parla di film in chiave estetica, né dà giudizi tecnici o qualitativi. Esprime i suoi gusti, la sua passione per alcuni attori - si dice innamorato di Nicole Kidman - per alcuni registi, soprattutto quelli cosiddetti underground, fuori dal sistema della major - adora David Lynch di 'Velluto blu' - oppure la sua idea che alcuni maestri acclamati con Steven Spielberg o Quentin Tarantino abbiano detto tutto (il libro è stato pubblicato in America nel 2004). Parla di pellicole che hanno fatto la storia e ne racconta aneddoti e curiosità.
Come il fatto che 'Rapacità', capolavoro del 1924 di Von Stroheim, dovesse durare 8-10 ore e fosse stato Irvin Thalberg a imporre al regista austriaco di tagliare e ridurre la pellicola a due ore. Parla di tanti film, Thomson, parla di arte - a partire da 'Nascita di una nazione' e 'Intolerance' di David Wh. Griffith, il primo grande successo su scala nazionale e il primo flop, girati dallo stesso regista a un anno di distanza nel 1915 e 1916 - parla di Charlie Chaplin, di John Ford, di Marylin Monroe, di Francic Ford Coppola, di Steven Spielberg, di George Lucas, ma parla anche e soprattutto di industria del cinema. Fa i conti in tasca ai produttori, ricorda che nella prima Hollywood si sperimentasse e si rischiasse in maniera sconsiderata per quella che era a tutti gli effetti una fabbrica dei sogni. Di cinema parla Thomson, di industria piuttosto che di arte.
Che sia una forma d'arte, infatti, se lo chiede spesso nel suo libro e alla fine conclude che l'industria, i soldi, il mercato hanno la priorità rispetto all'arte. E lo fa citando capolavori assoluti, insieme a grandi successi commerciali, flop annunciati diventati poi cult movie o vere e proprie scommesse vinte o perse dai produttori, pionieri del nuovo mondo, del selvaggio west rappresentato dal cinema.
E proprio il tema delle scommesse è quello più avvincente: imprenditori che investono su un film, che vedono moltiplicarsi i costi e poi ottengono un risultato inatteso e clamoroso che li trasforma da milionari in miliardari. I produttori piacciono al critico - almeno quelli che "hanno una visione", che rischiano e che sanno fare film - e lo dice chiaramente, sperticandosi anche in un elogio di un personaggio che oggi è precipitato all'Inferno con accusa di stupro e di molestie a migliaia di attrici o aspiranti tali, Harvey Weinstein. "Nell'industria del cinema nessuno meglio di lui incarna l'energia violenta di Mayer e il gusto di Thalberg, entrambi nella stessa persona - scrive Thomson - Harvey Weinstein è esattamente ciò che l'industria americana del cinema si merita: un giocatore d'azzardo, un avventuriero e un uomo di gusto". Parole che oggi suonano stonate alla luce delle vicende giudiziarie, ma che descrivono il prototipo di produttore di Hollywood dalla sua nascita negli anni '10 agli anni Duemila.
E il critico Thomson, che nel 2004 ignorava ciò che il #MeToo avrebbe tirato fuori, ammirava quell'uomo perchè "alle maldicenze, spesso bizzarre (sic!), è abituato e gli tocca sopportarle, ma gli dobbiamo un grazie di esistere. In un periodo di gravi difficoltà, ha rivitalizzato il cinema indipendente americano".
Considerazioni finali a parte, che risultano un pò datate visto il balzo tecnico atto dal cinema in vent'anni e l'avvento delle piattaforme streaming - Thomson si chiede se le videocassette e i Dvd potranno uccidere il cinema - 'La formula perfettà è un viaggio magnifico della fabbrica dei sogni di Hollywood, dove s'incontrano i protagonisti, si scoprono storie, si capisce come questa industria sia cresciuta e sia diventata in poco più di un secolo una delle più floride non sono d'America, pur mantenendo una caratteristica unica: è la sola in grado - se ci sono registi e produttori volenterosi - di coniugare business e arte.