AGI - Mica è solo un premio come i tanti che portano il nome di qualcuno che non c’è più quello in scena l’8 agosto a Pantelleria. E non solo perché è intitolato a un mostro sacro del cinema italiano come Ennio Fantastichini, volato via troppo presto, a 63 anni. Ma perché la tre giorni nell’isola che era il buen ritiro di Fantastichini è organizzata da una sorta di famigliona allargata e intrecciata che alla morte dell’attore di cult come ‘Porte aperte’, ‘Mine vaganti’ ‘Ferie d’agosto’ si è cementata ancora di più.
L’organizzatrice della kermesse fantastichiniana è Marta Bifano, attrice, regista, figlia di Ida Di Benedetto, nonché uno dei primi amori dell'attore: un colpo di fulmine che scattò, racconta all’AGI, quando lei ventenne cercava una stanza in affitto, Cloris Brosca (ricordate ‘la zingara’ del televisivo ‘Luna Park, quella de “la luna neeeraaa” ? ndr) la collocò nella casa dell'amico Fantastichini quando l'attore era in tournée e al suo rientro lui, trovando tutto incredibilmente in ordine se ne uscì con un “Scusi devo aver sbagliato appartamento” che la conquistò.
Una grande passione che finì per una scarsa attitudine di lui alla fedeltà (“mi metteva troppe corna, ne soffrivo” sintetizza lei) senza minare però l’affetto. Dopo di lei arrivò Nadia D’Errico, anche lei nel comitato organizzatore del premio Ennio Fantastichini. Quando conobbe Ennio, racconta, viveva in una comunità hippie, stava con Alessandro Haber, (è anche lui al Premio Fantastichini, per una masterclass) e lo lasciò per mettersi con l’attore per nove anni diventando la madre del suo unico figlio Lorenzo, oggi 24 anni, per il quale Bifano è “zia Marta”.
Nell’isola dove con suo padre ha passato momenti che gli resteranno scolpiti nel cuore Lorenzo ha voluto che il premio andasse ad attori dagli otto a 30 anni, emergenti come lui, appena uscito dal Centro sperimentale di cinematografia. All’AGI il figlio di Fantastichini ha raccontato il rapporto a tratti complicati con suo padre, la decisione di seguire le sue orme, e il vuoto che non riesce a riempire.
“Mio padre sarebbe felice di questo premio che porta il suo nome perché considerava importanti i riconoscimenti: diceva sempre che l’attore è come un bambino in crisi abbandonica dipendente dal giudizio degli adulti e che i premi rappresentavano la carezza, il consenso. Approverebbe anche la decisione di consegnarlo a attori emergenti, ha sempre cercato di aiutare i colleghi giovani, non ha mai peccato di gelosie e avarizia professionale. Forse perché era rimasto anche lui, con la sua sensibilità, un bambino in un corpo di adulto”.
È stato lui a indirizzarla verso il mondo del cinema?
“Tutt’altro. Inizialmente ha cercato di tenermi lontano dal suo mondo. Non voleva influenzarmi, sapeva di essere una figura ingombrante, evitava anche di farmi vedere i suoi film, sosteneva che bisogna lasciare andare le persone, in particolare i figli. Tant’è che inizialmente avevo preso un’altra direzione”.
Quale?
“Sempre una strada di famiglia, quello di mio zio Piero Fantastichini, fratello di papà, pittore e scultore di successo. La pittura mi ha aiutato ad esprimermi durante l’adolescenza, soffrivo di crisi di panico e lo incanalavo sulla tela dipingendo alieni e uomini senza volto. Mi ci dedico ancora, ma a un certo punto ho capito che non poteva essere quello il mio lavoro”.
Il punto di svolta verso il mestiere di suo padre quando è arrivato?
“Quando il regista Claudio Boccaccini mi chiamò per uno spettacolo teatrale, ‘Le belle notti’ in cui aveva coinvolto altri figli d’arte: superai il provino ma poi decisi di non farlo quello spettacolo, non mi sentivo pronto, ero l’unico del gruppo che non aveva esperienza. Boccaccini capì ma mi invitò a seguire i suoi corsi in un anno in cui ero anche impegnato in un’attività di volontariato in un un centro di musicoterapia per disabili, lavavo i piatti lì e poi salivo sul palco…”.
Suo padre era contento?
Non era convintissimo, voleva risparmiarmi incertezze e dolori legati a questo lavoro. L’ho conquistato con lo spettacolo di fine corso, vincendo le sue resistenze: “in ‘American blues’ misi in scena un pezzo di ‘Morte di un commesso viaggiatore’, ero un anziano con la postura traballante. Papà si commosse, anche se devo ammettere che non era difficile farlo piangere”.
Si commuoveva spesso?
“Sì per le gioie come per i dolori, piangeva anche per una canzone. Quando eravamo nella casa di Pantelleria, per le nostre estati indimenticabili lontano da tutti, in mezzo alla natura, metteva un brano di Enzo Avitabile o di Mannarino, mi guardava e si commuoveva. Era un uomo molto fragile, un po’ un lupo solitario, c’era una grande differenza tra persona e personaggio: papà sul set già alle sei di mattina era pronto a ridere e a scherzare con tutti, ma a casa si portava dietro le pesantezze esistenziali e le insoddisfazioni del suo percorso professionale”.
Avrebbe meritato di più.
“Non ha avuto le occasioni per esprimere tutto il suo potenziale… Il suo mentore è stato Gian Maria Volontè, ha cominciato con Dario Fo, avrebbe meritato molto di più se non fosse stato incasellato nel personaggio del cattivo e del prepotente. In nome della qualità e del rispetto per se stesso ha detto anche tanti no”.
A chi?
“Ha declinando tante proposte troppo commerciali, mi ripeteva sempre: “La mattina quando mi alzo non voglio guardarmi allo specchio e tirarmi uno sputacchio”.
Tra le sue interpretazioni quale considera la migliore?
‘Porte aperte’, il film di Gianni Amelio ispirato a un romanzo d Sciascia in cui papà duettava con Volontè. Lì è riuscito sicuramente ad esprimere la sua potenza attoriale. Era di quelli che scavano dentro se stessi, annientandosi, per diventare qualcun altro”.
Che effetto le ha fatto vederlo in ‘Lontano lontano’, il film di Gianni Di Gregorio con la sua ultima interpretazione uscita al cinema dopo la sua morte?
“Quel film per me è un totem, perché il suo personaggio è proprio com’era lui, spontaneo, verace, scherzoso e amante del romanesco. Il regista gli ha lasciato mano libera nelle sue tipiche espressioni, tipo “acchiappa ‘sta cosa” E poi anche lui, come il personaggio deciso a trasferirsi da Roma alle Azzorre con altri due pensionati, e che sopravvive restaurando mobili, amava tanto andare al mercato di Porta Portese”.
Nel film il personaggio ha un rapporto ricco d’amore ma complicato con sua figlia...
“In effetti ricorda un po’ il nostro: nella prima parte della mia vita lo vedevo nei weekend perché viveva in campagna, poi siamo stati più insieme e ora io vivo nella sua casa romana. Avrebbe voluto essere un padre più presente, il lavoro spesso lo ha tolto dalla vita, ma è anche vero che spesso gliela ha salvata . E poi è stato lui a darmi forza e a motivarmi quando ero dubbioso sulla strada intrapresa: gli dicevo ‘papà, non so se me la sento, è difficile imparare le parti a memoria..” e lui mi incitava ad andare avanti. E quando alla fine era a letto ammalato cercava di allontanarmi da lui dicendomi “Vai a scuola, vai al Centro”. Tanto’ è che ho recitato Amleto al Centro sperimentale il giorno dopo che se n’è andato. Non è stato facile, ma credo di aver incanalato lì il mio dolore”.
Il suo ricordo più vivo?
“A Pantelleria, nella sua ultima estate, quando si è verificato una sorta di presagio: eravamo a casa, lui si sentiva debole, era stato a letto tutto il giorno, ma ogni tanto gli succedeva. Poi quando siamo andati a farci un bagno, sono arrivati quattro falchi che hanno iniziato a volarci intorno, come in un saluto”.
Cosa le manca di più di lui oggi?
“La sua emotività sproporzionata, la sua gentilezza e il suo credere in me”.