AGI – La natura regala sempre sorprese inimmaginabili, una di queste arriva dal mondo animale: in quanti sanno che la balenottera comune è una grande cattura-CO2? Se un albero in un anno ne cattura meno di 50 kg, la balenottera comune arriva fino a ben 33 tonnellate annue.
È quindi una specie-ombrello questo misticete, sottordine dei cetacei con la megattera, la caperea, la balena grigia e la balena propriamente detta. È il secondo misticete più grande al mondo dopo la balenottera azzurra, l'unico presente nel Mediterraneo. Negli anni Novanta si stimavano 3.500 individui nel 'Mare nostrum', ma data la relativa rarità nell'incontrare questi meravigliosi giganti è difficile avere dei numeri precisi.
Oggi nel Mediterraneo riscontrare una popolazione di circa 5 mila esemplari è plausibile. L'esemplare è capace di raggiungere mediamente i 23-26 metri di lunghezza, con la caratteristica di non avere denti, salvo qualche iniziale abbozzo nel feto, sostituiti dai fanoni (e infatti misticete deriva dal greco mystiketos, ovvero balena con i baffi, appunto i fanoni), che costituiscono uno straordinario sistema di filtro del plancton e del krill, che rappresentano il loro alimento (niente pesci o calamari come gli odontoceti) e per giunta in grandi quantità.
Le feci che fertilizzano il mare
La balenottera non si nutre quindi di altro. E il fatto che sia una specie-ombrello dà subito l'idea della sua importanza nel segnare lo stato di salute del mare. Ma c'è di più: quando rilascia le feci rilascia anche grandi quantità di ferro e di azoto che fertilizzano il mare, quindi il plancton, e si arriva all'ossigeno. Di qui il grande sforzo degli ambientalisti, Wwf in testa, perché questa specie di cetaceo comune non corra il rischio di estinzione, insieme alle altre 7 specie di cetacei presenti nel 'Mare nostrum'.
Le balenottere sono sempre state di casa nel Mediterraneo – spiega all’AGI Laura Pintore, esperta di megafauna marina del Wwf Italia, oltre che responsabile del Dipartimento di Biodiversità all'EIIS (European Institute of Innovation for Sustainability) – e hanno una diversificazione genetica rispetto a quelle dell’Atlantico. "Difficilmente – dice Pintore – varcano lo Stretto di Gibilterra, che crea quello che Darwin definì un 'collo di bottiglia', una sorta di imbuto per la biodiversità, e questo fa sì che le nostre balenottere siano un po' speciali. In sostanza non fanno migrazioni come quelle dell'Atlantico che si spostano tra i Tropici e i Poli per riprodursi, alimentarsi in concomitanza con lo scioglimento dei ghiacciai e quindi tornare ai Tropici per partorire, in un ciclo continuo".
Il santuario del Mediterraneo
La balenottera comune resta nel Mediterraneo, è quello il suo habitat, quello dove circoscrive il proprio ciclo di vita. E in questo mare sono distribuiti, con maggiore presenza nel cosiddetto 'Santuario Pelagos', zona marina di quasi 88mila km quadrati istituita in base a un accordo tra Italia, Francia e Principato di Monaco per la protezione appunto dei mammiferi marini che la frequentano o l'abitano. Una zona ricca di canyon marini e attrattiva dal punto di vista della disponibilità di cibo, e questo fa sì che poi d'estate capiti di avvistarne di più di questi cetacei. Peraltro il Mediterraneo – aggiunge l'esperta del Wwf – è davvero un caso a sé e copre appena l'1% della superficie blu globale – proprio un'inezia, verrebbe da dire -, eppure ha caratteristiche climatiche particolari: il caldo non provoca danni a questa specie, dotata di un efficace sistema di termoregolazione.
E attraverso lo studio sui suoni emessi "abbiamo dimostrato che alcuni di questi cetacei restano nel mar Ligure anche d'inverno e li' avviene anche la riproduzione, con regolarità". Attraverso la tecnica del 'Passive Acoustic Monitoring', il monitoraggio acustico passivo fatto con l'utilizzo di idrofoni fissi, è stato infatti possibile dedurre che - a differenza di quanto detto da studi precedenti -, non tutti gli individui migrano verso il Mediterraneo meridionale durante l'autunno e l'inizio dell'inverno, rimanendo nella zona anche durante l’autunno per l'alimentazione o la riproduzione. I risultati hanno mostrato poi che la presenza acustica delle balenottere comuni è più alta durante l'autunno rispetto ai mesi estivi.
I pericoli per la specie
"Un risultato inaspettato – commenta Pintore – perché le più grandi aggregazioni conosciute nella zona sono state registrate durante l'estate, con un'alta variabilità interannuale. Lo studio è stato condotto grazie al progetto di Dottorato di Ricerca dell'esperta di cetacei in collaborazione con l'Università degli Studi di Torino e finanziato dal Wwf Italia. Mentre in Atlantico i tempi di gestazione variano in quanto dipendenti dalle migrazioni legate alla riproduzione nella zona dei Tropici e al procurarsi il cibo nella zona dei Poli, e quindi di nuovo ai Tropici. Ma non tutto è indolore, anche il Mediterraneo nasconde gravi insidie per questa specie. È vero sì che costituisce appena l'1% della superficie blu globale ma è anche vero – sottolinea Pintore – che in questo stesso mare transita ben il 30% del traffico marittimo mondiale, e quindi il rischio di collisioni tra cetacei e navi esiste eccome.
Un rischio oltretutto difficilmente quantificabile, "perché il motivo del decesso lo si conosce solo con lo spiaggiamento del cetaceo e con il successivo esame autoptico che evidenzia ferite da collisione oppure quando si ha possibilità di avvistare cetacei rimasti feriti e che presentano cicatrici. Ma quanti sono quelli che sprofondano nei canyon marini?". Questo per quanto riguarda le minacce "dirette" all'esistenza della balenottera comune, ma ci sono anche le minacce "indirette", e queste "sono le più insidiose perché causano un impatto a lungo termine sull'intera popolazione. Basti pensare che il riscaldamento globale impatta sull'alimentazione.
E poi ci sono plastica e microplastiche che vengono ingerite. La balenottera comune con i fanoni filtra l'acqua e così le resta il krill per alimentarsi, ma insieme al krill anche plastiche e microplastiche che a lungo andare se entrano nel circolo dell'organismo possono creare tumori, ritardi fisiologici, abbattimento delle difese immunitarie".
È stato accertato che nelle femmine i tassi di sostanze nocive sono più bassi, ma non per una predisposizione genetica bensì perché sono espulse nella gestazione, ovvero attraverso la placenta arrivano al feto e poi il passaggio continua con l'allattamento del cucciolo che si porterà dietro il bagaglio di sostanze nocive, e via dicendo nella prosecuzione della specie. E poi ci sono le minacce indirette costituite dall'inquinamento chimico, dai metalli pesanti, da quanto viene sversato in mare. Tornando alla storia e ai numeri del cetaceo, i dati sulla popolazione di balenottera a livello globale sono aggiornati al 2018, e si parlava di 100mila esemplari maturi nell'Atlantico settentrionale.
Ascesa e declino della caccia
La balenottera non era facilmente catturabile dalle prime baleniere a causa delle sue dimensioni e della sua velocità (il libro Moby Dick la dice lunga), ma è stata fortemente sfruttata dall'inizio della caccia meccanizzata alle balene nel 1864, in particolare al largo della Norvegia, dell'Islanda, delle isole Fær Øer e delle isole britanniche.
La caccia alle balene è stata gradualmente eliminata negli anni '80, a eccezione di piccole catture al largo della Groenlandia occidentale. Le catture sono riprese al largo dell'Islanda occidentale nel 2007, ma dal 2015 non sono più state effettuate (fonte Commissione baleniera internazionale - IWC 2018). Le statistiche sulle catture dei primi anni sono incomplete: alcune non sono suddivise per specie e un numero significativo di balene, forse il 30-50%, sono state uccise ma perse a causa della rottura delle lenze, ecc. Il Comitato scientifico della IWC ha prodotto stime 'migliori' e 'alte' delle uccisioni di balenottere nell'Atlantico settentrionale, per un totale di 98.000 e 115.000 rispettivamente (IWC 2017).
Negli ultimi trent'anni sono state condotte diverse serie d'indagini nell'Atlantico settentrionale in estate per stimare l'abbondanza delle balenottere e di altre specie di cetacei. Le stime disponibili ammontano complessivamente a circa 79.000 balene. Queste cifre non includono le acque a ovest dell'Irlanda, dove le balenottere sono piuttosto abbondanti.
L'aumento complessivo delle balenottere registrato nell'Atlantico settentrionale può rappresentare un continuo recupero rispetto alla passata caccia alle balene, ma è stato anche ipotizzato dai ricercatori che il recupero fosse già sostanzialmente completo nel 2000 e che l'ultimo aumento sia dovuto a cambiamenti ambientali. Quanto al Pacifico settentrionale, si stima che lo stock di balenottere sia diminuito da un 'livello iniziale' di 44.000 esemplari a 17.000 nel 1975. Le cifre si riferiscono alla popolazione 'sfruttabile', cioè alle balene che superano la taglia minima consentita alla cattura. Sebbene queste valutazioni si basassero su indici di catture per unità di sforzo (CPUE) e di avvistamenti per unità di sforzo (SPUE) che non soddisfacevano i moderni requisiti per l'analisi di tali dati (IWC 1989), non c'è dubbio, per i ricercatori, che le popolazioni siano diminuite in modo sostanziale. Infine un dato sulla caccia alla balena: dalla fine degli anni Sessanta dell'Ottocento in poi è stata cacciata senza sosta in tutti i principali oceani; il picco è stato nel periodo 1935-70, quando ne venivano catturate fino a 30.000 all'anno e la balenottera costituiva la parte più consistente delle catture mondiali. In 147.607 esemplari sono stati catturati nell'emisfero nord e 726.461 nell'emisfero sud.