AGI - “L’incendio dei boschi è gravissimo perché distrugge l’ecosistema forestale, lo azzera. Il cittadino dovrebbe però anche sapere che una foresta ha in sé una vigorosa capacità di auto-ricostituzione, ma non lo sa. Ed è grave…”. A parlare è il professor Francesco Spada, classe 1946. Fino al pensionamento, sei anni fa, ha insegnato alla Sapienza a Roma Botanica sistematica e Fitogeografia, disciplina che studia perché e dove le piante vivano dove vivono.
Oggi è “studioso ospite” presso l’Istituto di Ecologia Vegetale e Genetica dell’Università di Uppsala in Svezia, paese dove vive da tempo. Spada è pure attivo nella ricerca sulla gestione degli ecosistemi forestali nell’ambito della Società Fitogeografica Svedese. Un pensiero controcorrente, il suo?
Professore, perché è grave non sapere che le foreste si ricostituiscano dopo il fuoco?
Perché il cittadino assume emozionalmente una posizione interventista e chiede alle amministrazioni, supportato da alcune scuole di pensiero delle scienze forestali, di avviare iniziative di rimboschimento e di prevenire il rischio d’incendio con la ‘pulizia’ del sottobosco.
Ed è un errore? Lei non è d’accordo?
È una soluzione di recupero assolutamente inutile, se non controproducente.
Può spiegare il perché?
In primo luogo il rimboschimento non porta alla ricostituzione della copertura forestale iniziale, se s’è trattato di incendio in foresta naturale e impiega tempo ad affermarsi. Le specie messe a dimora, poi, non sono quelle che il determinismo naturale avrebbe voluto sul posto, soprattutto dal punto di vista genetico. Le piante messe a dimora artificialmente – nella piantagione sostitutiva – non appartengono quasi mai al genoma delle popolazioni locali, non hanno caratteristiche genetiche compatibili, perché non sono semplicemente reperibili nel circuito vivaistico.
Chiarisca il concetto.
Poniamo andasse a fuoco una sughereta sarda e si volesse ripristinarla subito con la messa a dimora di nuove sughere nell’area del fuoco, sul mercato, per accordi commerciali nazionali, in realtà esistono solo provenienze portoghesi. Semi, ghiande di sughera di un’altra razza geografica, varietà o addirittura sottospecie diversa che, quindi, creerebbero una formazione artificiale con caratteristiche genetiche d’altro tipo, alloctone, non indigene, e si giungerebbe – cosa già avvenuta – all’inquinamento genetico delle popolazioni di sughera locali con il rischio di portare all’estinzione le razze evolutesi nel tempo in quel determinato territorio. In Sardegna già esistono milioni di individui di sughera messi a dimora nei rimboschimenti e di provenienza portoghese, con un altro genoma cioè. Ciò crea uno scompenso in natura.
Il cittadino cosa deve sapere esattamente?
Che la foresta si ricostituisce spontaneamente. Il processo è lento, certo, ma non di più di quanto lo sia il rimboschimento stesso. Che, per altro, richiede un enorme dispendio di mezzi, di pianificazione ed è una goccia nell’Oceano della vita.
La foresta si ricostituisce com’era prima della distruzione?
Non immediatamente e necessariamente così com’era, arrivano per prime le piante pioniere.
Che sarebbero?
Specie arboree i cui semi volano, trasportati dal vento oppure diffusi dagli uccelli. Specie con semi alati o bacche, come pioppi, salici, betulle, frassini, aceri, ciliegi. I pini, specie nelle aree costiere e le conifere in genere, tendono a colonizzare con vigore le aree percorse dal fuoco. Il pino, spesso, è un indicatore di una tendenza della foresta locale a esser stata in passato aggredita dal fuoco. I pini sono di facile riproducibilità in vivaio. Dall’inizio del ‘900 in poi sono al centro dell’attenzione del silvicoltore, per cui sono state messe a dimora pinete artificiali di vastissima estensione che però sono anche facili esche da fuoco. In Provenza, gli incendi ultimi si son sviluppati quasi tutti nelle pinete litoranee per lo più d’origine artificiale.
Quali sono le conseguenze d’una foresta che brucia?
La foresta brucia per sua natura. Uno dei combustibili per eccellenza è il legno. Perciò il destino d’una foresta spesso è caratterizzato dall’incidente incendio. Dico ‘incidente’ perché esistono teorie o paradigmi scientifici che tendono a mostrare come il destino della foresta sia sempre quello di passare attraverso l’evento distruttivo del fuoco per consentire a una nuova generazione d’alberi di ridisseminarsi.
Quindi una volta incendiata la foresta non muore ma si rigenera?
Una volta incendiata la foresta ha la capacità di ripristinarsi, nel senso che la maggior parte degli alberi, non appartenenti alle conifere, ha la capacità di riprodurre nuovi getti dal ceppo combusto, perciò nel corso del tempo di ricostituire la formazione andata distrutta. Vale soprattutto per la foresta di querce mediterranee di lecci e sughere e la macchia mediterranea. Nel rogo terribile dell’Argentario dell’estate 1980, già a Natale si era verificato il riscoppio, il ricaccio di polloni delle ceppaie di corbezzolo, leccio e delle altre legnose mediterranee bruciate che avevano già raggiunto i 50 centimetri d’altezza.
In quanto tempo mediamente si ricostituisce una foresta?
La foresta mediterranea, quella che noi chiamiamo ‘macchia’, che caratterizza le zone costiere d’Italia, formata da alberi sempreverdi, come sughere, leccio, corbezzolo, erica arborea, fillirea, alaterno, lentisco, tende a ripristinare la copertura precedente nel giro di venti, trent’anni. Lo sforzo è legato alla capacità degli alberi stessi di ‘ricacciare’ dalla ceppaia bruciata, se non distrutta completamente da un fuoco intenso che abbia bruciato anche le radici, ovviamente. Penso alla foresta mediterranea dei territori costieri, alla quale abbiamo prestato poca attenzione negli anni ’70. Andava a fuoco regolarmente perché i pastori – la pastorizia allora era ancora intensa – avevano la consuetudine d’incendiare i prati nei boschi per favorire il pascolo del bestiame. C’era persino una regolamentazione dei Comuni in tal senso. Ciò ha comportato deflagrazioni che hanno eroso la copertura forestale della costa italiana, deforestando pesantemente il paesaggio, finché la consuetudine non è venuta meno. All’epoca, soprattutto le pinete costiere, sia naturali sia artificiali, andavano spesso a fuoco, perché purtroppo sono facile esca. Le conifere, il pino, ricche di resina, producono una combustione più vistosa e violenta.
I danni alle foreste secolari sono però più gravi, se c’è una scala di gravità…
Certamente. Le foreste plurisecolari, mature, spesso vetuste, quelle che dovrebbero rappresentare la vera struttura di un ecosistema forestale vitale e in equilibrio, sono in serio pericolo in futuro. Dovrebbero rappresentare lo stato della foresta alla quale noi dovremmo mirare, in realtà, nella gestione degli ecosistemi forestali, ma una volta incendiate sono perdute per intere generazioni umane come documento di naturalità. Una foresta dovrebbe essere sempre plurisecolare, costituita cioè da una copertura arborea d’individui che hanno alle spalle secoli e secoli di vita. Un danno irreparabile dal punto di vista ecosistemico e del recupero, se percorse dal fuoco.
Quindi è grave nel senso che, ammesso che la foresta abbia raggiunto uno stadio di equilibrio e sia rappresentativa di quelle che sono le condizioni climatiche locali e storiche, è un degrado gravissimo delle condizioni generali biologiche di un territorio, che alle nostre latitudini dovrebbe esse naturalmente e ovunque ricoperto da foresta. Nel paesaggio umanizzato della colonizzazione agraria, le foreste sono relegate ai margini e pertanto la minaccia dell’incendio aggrava questo squilibrio ambientale.
Cosa succede nel concreto durante questo processo?
“Accade che una quantità enorme di specie si avventurino in questa area combusta e aperta e la colonizzino. Spesso a noi questo piace, purtroppo, poiché questa ricolonizzazione comporta la concentrazione di molte specie ove prima regnava una copertura ombrosa di poche o di un'unica sola specie arborea.
In che senso piace?
E quel che noi, nel discorso superficiale sull’ambiente, chiamiamo, fraintendendola, biodiversità. Ma biodiversità non vuol dire semplicemente concentrazione quanto maggiore possibile di specie in una determinata area. Gli ecosistemi forestali, se indisturbati e sani delle nostre latitudini, sono secondo natura poverissimi di specie per unità di superfice rispetto ad aree aperte o di foresta degradata o giovane. Il punto è che questa biodiversità, fraintesa come semplice numero di specie presenti, ci piace solo per ragioni estetiche. E la consideriamo pertanto un valore.
Un valore non è?
È nato purtroppo un paradigma, per altro nocivo, mal interpretato dal pubblico, secondo cui è bello avere foreste un po’ ‘a mosaico’, cioè legate alla colonizzazione agraria, con aree aperte e aree boscate, in cui esiste una maggiore quantità per unità di superficie di specie animali e vegetali. Però non è la condizione corretta, di natura.
Qual è invece la condizione di natura d’una foresta?
È d’esser chiusa, ombrosa, con poche specie erbacee nel sottobosco. Tutto ciò dà origine a una quantità di equivoci terribili, a cui, purtroppo, una consistente parte degli esperti di selvicoltura si propone in modo estremamente acritico. E ciò riguarda la pulizia del sottobosco, la eliminazione di arbusti e giovani alberi, così da diminuire la quantità di potenziale combustibile al suolo.
Più pulizia, meno incendi si dice.
Il rischio d’incendio viene affrontato in questi giorni con operazioni di diradamenti in bosco un po’ ovunque, seguendo il banalissimo criterio secondo cui meno legna c’è, minore è il rischio di fuoco.
Lei non condivide?
È una cosa del tutto insensata. La foresta nella quale è avvenuto un diradamento vede in seguito diminuire il grado di umidità e aumentare al suo interno l’insediamento di specie erbacee, aumentando i coni di luce. Così, indirettamente, si induce un rischio maggiore d’incendio in tempi successivi al diradamento. Oltretutto non è più foresta ma solo un insieme artificializzato di tronchi d’albero, viene eliminata la cosiddetta porzione del sottobosco, fatta di alberi giovani e specie erbacee e arbustive legate alla naturale costituzione dell’ecosistema foresta, che è funzionale al mantenimento ciclico, al rinnovamento naturale della foresta stessa. È questo il tipo di biodiversità da rispettare e tutelare. Andare a eliminare questi alberi giovani con il diradamento vuol dire semplicemente aumentare il rischio di fuoco in futuro. Oltretutto si tratta di un’altra goccia d’acqua nell’Oceano: non possiamo pensare di sottoporre le nostre foreste a un giardinaggio globale andando a ripulire il sottobosco solo perché lì molto spesso s’accumula materia secca.
Ripulire il sottobosco è una grande sciocchezza?
Una cosa del genere. Purtroppo, questa posizione, sostenuta a spada tratta da alcune scuole di pensiero delle Scienze Forestali, è arrivata a livelli di celebrità perché anche l’ex presidente americano Donald Trump, in seguito agli incendi scoppiati in California due anni fa, accusò i movimenti ambientalisti d’aver favorito le deflagrazioni poiché si erano opposti al fatto che la foresta non si toccasse, non venisse ripulita. Sostenne che se la foresta fosse stata ripulita del sottobosco come volevano i suoi consiglieri del mondo selvicolturale, non si sarebbero incendiato nulla. In un certo senso ha dato voce a una prassi da “guardiacaccia”, insana, ma che ha preso piede un po’ ovunque.
Come si mantiene il bosco e lo si tutela dagli incendi, al di là di quelli chiaramente dolosi? Molti sono anche per autocombustione, c’è un metodo?
L’autocombustione non si verifica nei nostri climi temperati, mai. L’autocombustione non esiste come causa scatenante. L’incendio di foreste nei nostri climi è sempre e solo indotto dall’ uomo. È stata ipotizzata in alcune foreste di conifere nell’America settentrionale per sfregamento di rami, a causa del vento, in casi di estrema siccità. La foresta prende fuoco, in condizioni naturali, solo per fulminazione. E devono esser fulmini a ciel sereno, ciò che si verifica con estrema rarità. Possiamo difenderci solo con la vigilanza. Gli incendi ovunque sono dolosi, e non indotti da piromani, categoria assai limitata. Gli incendi sono intenzionali o dovuti a disattenzione. Come nel caso dei mozziconi di sigarette lanciati dal finestrino di un’auto in corsa. Innescati dall’erba secca ai lati delle strade e da lì estesisi alla foresta. Potremmo arginarli solo con la vigilanza, ma questa ha perduto efficacia. Il Corpo Forestale dello Stato, organo di vigilanza che vi poteva far fronte, per competenza ed esperienza, è stato smantellato, dissolto. I Vigili del Fuoco sono deputati a spegnere incendi solo urbani, per i quali hanno indiscussa esperienza, ma non incendi in foresta. Il passaggio delle competenze dell’ex Corpo Forestale ai Carabinieri ha imposto uno scompiglio al sistema di prevenzione e vigilanza per ripristinare il quale sarà necessario un tempo lunghissimo.
Ci sono altre alternative?
Esistono alcune organizzazioni, come in Piemonte, di volontari degli antincendi boschivi (Aib) che svolgono in alcuni Comuni un’opera di vigilanza e spegnimento efficacissima, però è poco rispetto al territorio nazionale. E poi esiste un colpevole sottoutilizzo della tecnologia oggi disponibile. Non si fa uso dei droni. Eppure li usano i bambini per gioco…, ma per vigilare sui focolai d’incendio non ce ne serviamo. Non dimentichiamo che negli incendi delle pinete pescaresi dell’estate scorsa, tutti d’origine dolosa, sono stati trovati focolai, inneschi che avrebbero potuto essere monitorati dai droni alle prime avvisaglie. E anche per i Canadair non ci si sofferma sul fatto che essendo gestiti da ditte private, più lunga è la durata del servizio, maggiore è il vantaggio che la ditta ricava. Il tempo di spegnimento è infatti aumentato rispetto al passato, con la scesa in campo d’interessi che offuscano l’efficienza delle operazioni di difesa della foresta dal fuoco. Questo lo si deve sapere. L’unica alternativa è la vigilanza istituzionale del patrimonio forestale.
Il suo è un pensiero controcorrente. Ottimista o solo avverso al catastrofismo corrente?
Sono convinto che la responsabilità degli incendi sia legata alla struttura comportamentale e tecnologica della società urbana che vive a contatto con la foresta. Se noi insistessimo nell’educare e correggere alcuni comportamenti, sicuramente potremmo far fronte a quel che purtroppo oggi è in aumento: il rischio d’incendio per aumento del turismo in foresta, esasperato dalla crescente siccità e surriscaldamento del clima. Pur non essendo ottimista, non sono però affatto catastrofista come invece lo è il pensiero corrente, compreso quello di certo ambientalismo di base, esclusivamente emozionale, conoscendo i fenomeni naturali di ricostituzione spontanea della foresta stessa.