I vichinghi potrebbero essere stati almeno in parte responsabili della diffusione del vaiolo in Gran Bretagna e successivamente in tutta Europa già nel VI secolo, anticipando di circa un millennio le attuali conoscenze riguardo la prima comparsa del virus.
A rivelarlo uno studio, pubblicato sulla rivista Science, condotto da un team internazionale di esperti dell’Università di Copenaghen e dell’Università di Cambridge, che hanno analizzato le informazioni genetiche estratte dai campioni dentali appartenenti a individui vissuti circa 1.400 anni fa.
“Il vaiolo – spiega Terry Jones dell'Università di Cambridge – è un’infezione virale che causa febbre, nausea, cefalea e un’eruzione cutanea che porta alla formazione di piaghe e pustole, con conseguenti cicatrici. Prima che venisse sconfitto nel 1980, il suo tasso di mortalità era di circa il 30 percento, e il più antico campione risaliva al XVII secolo”.
Gli esperti sostengono che una migliore comprensione della storia evolutiva di virus come il vaiolo potrebbe rivelarsi utile nella battaglia contro nuove ed emergenti malattie infettive. “Non sappiamo ancora – precisa il ricercatore – se il patogeno nell’era vichinga fosse altrettanto pericoloso, ma il nostro studio dimostra che i popoli norreni svolsero un ruolo chiave nella diffusione della malattia o, quantomeno, che durante il periodo vichingo il vaiolo era già presente. Conoscere il passato può aiutarci nelle situazioni presenti”.
L’autore sottolinea che il vaiolo rappresenta il primo virus ad essere stato debellato, con l’ultimo caso riportato in Somalia nel 1977, ma esiste comunque la preoccupazione che possa riemergere con ceppi differenti, dato che l’origine e l’evoluzione della variola sono ancora in gran parte sconosciute.
“Le ipotesi più accreditate – continua Jones – teorizzano che il virus della variola sia stato trasmesso agli esseri umani dai roditori migliaia di anni fa. Per dirimere parte del mistero, abbiamo cercato prove dell’esistenza di antichi ceppi di vaiolo in diversi siti archeologici, rintracciando l’agente patogeno nei resti umani in 11 siti di sepoltura in Danimarca, Norvegia, Russia e Regno Unito, tutti risalenti all’era vichinga”.
Le analisi hanno rivelato che le strutture genetiche dei ceppi antichi di vaiolo erano significativamente diverse rispetto agli esempi moderni, il che suggerisce che il virus si sia evoluto nel corso nel tempo. “Gli scheletri vichinghi – sostiene Eske Willerslev, zoologo presso l’Università di Cambridge – ci hanno permesso di rintracciare nuovi ceppi di vaiolo. Sapevamo già che queste popolazioni raggiungevano l’Europa e viaggiavano attraverso le terre di quel tempo. Pertanto è altamente probabile che abbiano contribuito notevolmente alla diffusione dell’infezione”.
“Non sappiamo ancora con certezza – conclude Martin Sikora dell'Università di Copenaghen – se il motivo del decesso dei corpi analizzati sia legato o meno al vaiolo, ma in questi individui il virus era certamente presente nell’organismo al momento della morte o non avremmo avuto modo di rilevarlo 1.400 anni dopo”.