Roma - Matteo Renzi potrebbe non dimettersi dalla guida del governo anche dopo una eventuale vittoria del No al referendum sulle riforme. Lo scrive chiaramente Eugenio Scalfari stamane su Repubbblica, lo si respira da pochi giorni in Transatlantico. I pochi indizi sicuri, la fitta propaganda e la legge aurea del renzismo per cui “con Matteo non è mai detta l’ultima…” non rendono facile fare previsioni. Ma qualche elemento certo c’è e vale la pena metterlo in fila. Innanzitutto il ruolo del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ci tiene più di ogni altra cosa a essere “arbitro imparziale” ma ha fatto sapere che non ama i toni ultimativi della campagna elettorale. “Il referendum non è un giudizio di Dio”, spiega chi gli ha parlato di recente. Altro tassello certo è che Mattarella intende far registrare ogni momento cruciale con un passaggio alle Camere. Terzo elemento che si respira al Quirinale è che non si intende né troncare la legislatura ma nemmeno tenerla in vita artificialmente, serve dunque un governo che abbia una maggioranza salda. Perché la preoccupazione principale del Capo dello Stato è la tenuta del Paese, anche sul piano dei rapporti politici ed economici internazionali.
Cosa potrebbe succedere: i 17 scenari del post-voto
In questo quadro, Matteo Renzi da lunedì farà le sue valutazioni. Tenuto conto del risultato, e cioè appurato non solo se ha vinto il Sì o il No, ma anche di quanto sarà il distacco tra i due schieramenti. Se vincesse il Sì, il governo, magari con qualche ministro cambiato, proseguirà il suo percorso. E l’unica incognita sarà solo la data delle elezioni politiche. Se vincerà il No, magari di poco, non è detto che il premier rassegni le sue dimissioni irrevocabili, nonostante i suoi sostengano ancora questa tesi. “Siamo in campagna elettorale, dobbiamo fare propaganda e quindi dobbiamo dire che se si vota No dopo c’è il caos. Ma il 5 dicembre vediamo…” spiega una delle persone più fidate di Renzi. Come a dire che nulla è ancora deciso. Il dilemma che Renzi ha davanti, in caso di sconfitta non pesante, è come capitalizzare un risultato che, seppur perdente, lo attesterebbe a piu’ del 40% di voti conquistati da solo sul campo. Le ipotesi sono due: restare o lasciare.
Se resta a palazzo Chigi e al Pd conserva quel doppio incarico che fa arrabbiare mezzo Partito democratico, ma che per lui è stato finora garanzia di stabilità. E gestirebbe un semestre importante per il governo, con appuntamenti istituzionali (primo fra tutti il G7), politici ed economici fondamentali. Se lascia palazzo Chigi, come per carattere sarebbe tentato di fare, non gestirebbe più leve importanti del potere, e si esporrebbe agli attacchi che verrebbero anche dall’interno del suo partito, che si prepara a un anno di congresso. Ma si potrebbe ripresentare agli elettori per le elezioni del 2018 senza indosso i panni dell’establishment. Sul modello ‘Giamburrasca’ che gli fece sbaragliare Pierluigi Bersani nel 2013 e che nel 2014 gli fece fermare l’ascesa di Beppe Grillo.
Molte sono le variabili, dunque, non ultima il lavorio delle correnti del Pd, che già pensano al dopo. Chi archiviando senza grossi complimenti Renzi, chi pensando a un suo recupero per le elezioni del 2018 ma dopo “un periodo di rieducazione al Nazareno”. Renzi osserva i movimenti del suo partito, sa che la fiducia è un bene prezioso quanto raro in politica e fa le sue valutazioni. Ma solo il voto degli italiani, domenica prossima, e il colloquio che si terrà subito dopo con Sergio Mattarella, potranno far pendere la sua decisione in un senso o nell’altro. Del resto vale la regola aurea del renzismo: “Matteo decide tutto all’ultimo”.
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