AGI - La notte del Gran Consiglio del fascismo, il 24 luglio 1943, è una sferzata improvvisa che attraversa come una scarica elettrica l’Italia in lungo e in largo per le sue conseguenze nell'indomani, ma in realtà non è e non può essere una sorpresa. Era tutto scritto e tutto noto nella cerchia del potere, salvo l’imprevisto dell’epilogo nella residenza del Re.
Il regime boccheggia sotto i colpi delle sconfitte militari, dell’invasione della Sicilia, del malcontento della popolazione vessata dall’intensificazione dei bombardamenti. Per sopravvivere a se stesso il sistema deve trovare un capro espiatorio, interno ed esterno, che può essere uno solo: il Capo, ovvero Benito Mussolini. Il passo successivo sarebbe stato logicamente l’uscita dalla guerra perduta, sganciandosi da Hitler e negoziandone il prezzo con gli Alleati.
Nessun colpo di stato, dunque, che si materializzerà invece per iniziativa di Vittorio Emanuele III che fa suoi gli inviti che provengono dagli ambienti monarchici, vaticani e persino della fronda fascista, intravedendo nella possibilità di sbarazzarsi del Duce quella di preservare il trono e la dinastia compromessa da venti anni di acquiescenza alla dittatura.
Per arrivarci, si trovò necessario utilizzare come grimaldello un organismo puramente consultivo, che non si riuniva mai pur essendo costituzionale, e al quale non si attribuiva alcuna effettiva importanza: il Gran Consiglio del fascismo, appunto. La convocazione era stata chiesta il 16 luglio da Roberto Farinacci in un colloquio diretto con Mussolini, che aveva acconsentito il 20, ovvero all’indomani del bombardamento di Roma e del flop dell’incontro di Feltre dove non era riuscito a dire una sola parola a Hitler sulla situazione dell’Italia. Il 20 luglio il questore di Catania gli aveva peraltro inviato un rapporto crudo sulla città: "Senza farina e senza acqua 30.000 persone che si addensano nei malsicuri rifugi sono sottoposti di giorno e di notte a incessanti terrificanti bombardamenti aerei e navali che vanno trasformando la città in un cumulo di rovine. Dovunque sono imprecazioni e invocazioni, perché si risparmi la totale rovina della città. [...] Si notano lunghe teorie di soldati italiani sbandati e affamati che raggiungono i paesi etnei rivolgendo [sic] ovunque panico e terrore. La popolazione teme svilupparsi un pericoloso brigantaggio. In città si sono verificati numerosi saccheggi in parte contenuti dalle esigue forze di Polizia a disposizione".
Il Gran Consiglio pareva la soluzione ideale e indolore per consentire a Mussolini di uscire di scena e a salvare il salvabile. E così il 21 il segretario del Partito nazionale fascista, Carlo Scorza, aveva inviato a tutti i componenti una lettera dattiloscritta riservata personale: "Il Duce ha convocato il Gran Consiglio per il 24 (sabato) alle ore 17". Si raccomandava di presentarsi in "Divisa Fascista (Sahariana nera, pantaloni corti grigioverdi)". Neppure l’ordine del giorno elaborato da Dino Grandi è una sorpresa per il Duce, perché Scorza ne era in possesso da giorni e sempre il 21 ne aveva letto il contenuto a Mussolini, che non aveva avuto nulla da ridire. Nel documento si invitava il governo "a pregare la Maestà del Re [...] affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono".
Lo schieramento del Gran Consiglio
È una formulazione implicita, ma chiara, a riattribuirgli il potere di fare la pace, poiché a lui nominalmente e giuridicamente spettava di dichiarare guerra, riassegnandogli il comando dell’esercito. Nella sala delle riunioni di Palazzo Venezia il quadrumviro e maresciallo d’Italia Emilio De Bono e il presidente della Camera Dino Grandi siedono alla destra di Mussolini, a sinistra ci sono Scorza e il presidente del Senato Giacomo Suardo. Quel 24 luglio neppure Bologna viene risparmiata dalla guerra aerea. Messina ormai ha perso il conto. A Roma i vertici del fascismo arrivano al dunque all’alba di domenica 25 luglio, quando i gerarchi soino chiamati a votare l’ordine del giorno Grandi, che passa con 19 sì (Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni), 7 no (Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Tringali e Scorza). Scorza aveva presentato un suo ordine del giorno, contro quello di Grandi, che era stato pertanto ritirato.
L’unico astenuto è Suardo, mentre Farinacci ha votato un proprio ordine del giorno. Mussolini, che ha chiaro il quadro ma non ne aveva intuito tutta la gravità e le conseguenze, chiude la seduta congedandosi con questa frase: "Voi avete provocato la crisi del regime". Se avesse davvero voluto evitare quell’epilogo, avrebbe potuto facilmente far intervenire i fedelissimi e far arrestare tutti con l’accusa di tradimento. Ma forse anche lui ha intravisto una via d’uscita per salvare anche se stesso da un quadro in cui non ha più margine d’azione. Quel giorno si decide invece il suo destino con modalità impreviste.
Il vero colpo di Stato
Quando l’atto di destituzione di Mussolini viene consegnato al ministro della Real Casa, Pietro Acquarone, a Montecitorio, il Re dà il via libera al piano per sbarazzarsi anche del fascismo dopo che il fascismo si è sbarazzato di Mussolini. Questo è il vero colpo di stato. Dopo mezzogiorno il capo di Stato maggiore generale, Vittorio Ambrosio, che è stato imposto al posto del Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero perché di sicura fede monarchica, a Palazzo Vidoni informa il neocomandante generale dei Carabinieri Angelo Cerica (in carica da tre giorni in sostituzione di Azzolino Hazon morto nel bombardamento del 19) che nel pomeriggio dovrà arrestare Mussolini.
Cerica ha appena il tempo di chiedere se quell’atto è costituzionale, perché Ambrosio ribatte subito "Nel campo costituzionale. L’ordine viene dal Re". Mussolini, attraverso il capo della segreteria Nicola De Cesare, direttamente da Palazzo Venezia ha chiesto udienza a Vittorio Emanuele III per informarlo di quanto accaduto nella notte del Gran Consiglio. Sta finendo in trappola nell’apparentemente innocuo incontro a Villa Savoia.