AGI - Uva troppo acerba, frutto proibito, tartaruga che Achille mai raggiunse: anche Silvio ebbe la sua fortezza che non riuscì a espugnare. Eppure vi dedicò sogni e energie per gran parte dei trent'anni in cui calcò il proscenio della politica e del potere. Ma dovette farlo, sempre, restando tra Montecitorio e Palazzo Chigi, che poi è lì accanto; mentre più su, esposto al vento Ponentino, restava altezzoso e fuori portata il Quirinale.
Silvio Berlusconi fu (non nell'ordine, ma man mano che viene in mente): Presidente del Consiglio, Presidente del Milan, Presidente di Forza Italia, Presidente di Mediaset. Presiedette Osce, G7, Consiglio Europeo, vertici Nato, conferenze internazionali per la lotta al crimine organizzato. Tutto il presiedibile. Ma non quello, non il Colle. Quello gli sfuggì sempre, Morgana nel deserto, come un impalpabile memento che a nessuno è dato vincere ovunque. Ci sara' sempre qualcosa che sfugge alla presa.
Il rapporto tra Berlusconi e il Quirinale è sempre stato complesso: per motivi oggettivi, concettuali, persino caratteriali.
I motivi concettuali
Partiamo dai concettuali. Concettualmente il Quirinale sarebbe stato il logico coronamento non della sua carriera, ma della sua Weltanschauung. Ci spieghiamo: uomo d'impresa, dell'impresa Berlusconi aveva fatto proprio il principio basilare, cioé che il potere è piramidale e chi sta al vertice comanda. Ed e' sempre uno solo. Ergo: se un Cda ha un presidente, è lui quello che conta.
Ora, in Costituzione non è così: al vertice c'è qualcuno che conta molto, ma non moltissimo. Non che tagli i nastri e basta, tutt'altro, ma i poteri veri sono altrove, nelle mani del Presidente del Consiglio e del Parlamento. Non potendosi sostituire al secondo, egli scelse di fare il primo, che poi è come essere in un'azienda dove chi comanda è l'amministratore delegato, e ce ne sono tante.
Sì, ma di Gianni tutti si ricordano e di Romiti un po' meno. Di qui quel vago sentore in insofferenza, quasi di furto subi'to, che Berlusconi mostrava di fronte all'idea che lui stravincitore di elezioni popolari, in fondo dovesse sottostare al giudizio di qualcuno eletto anch'egli, ma non dal popolo, e che quel qualcuno potesse decretare la fine dei suoi governi.
Le questioni caratteriali
Oscar Luigi Scalfaro, con cui proprio non si prendeva, lo rimandò a casa a fine '94 constatando non senza soddisfazione che Bossi e Buttiglione si sfilavano, e Pivetti e Scognamiglio non avrebbero innalzato le barricate per lui. Culmine, quella sera di dicembre, di mesi di sgarbi reciproci, finanziarie mandate alla controfirma all'ultimo minuto e successivi inviti ad ingoiare il rospo.
Mesi in cui Palazzo Chigi annunciava visite al Colle che il Colle avrebbe preferito mantenere segrete, e quando il corteo di Berlusconi arrivava fin sotto il Portone del Quirinale lo faceva a tutta velocità, con sgommata frenante finale solo all'ultimo secondo. Così, tanto per ribadire chi è che comandava.
Con Ciampi l'andamento fu altalenante. Inizialmente buono, poi molto meno passando dagli abbracci a Bossi sull'Alpe di Siusi al gelo delle leggi sull'editoria. Fu a questo punto, ancor prima che arrivasse l'ex comunista Napolitano e dire comunista è dir tutto, che Berlusconi prese sul serio l'idea di andarci lui, sul Colle, e che non se parlasse più. Ma l'ostacolo, per l'appunto, erano i poteri limitati.
Gli si pararono due strade: riformare la Costituzione con la buona compagna di un centrosinistra confuso ed un Pds-Ds non contrario alla svolta presidenziale; in alternativa accontentarsi di quello che c'era e puntare, eventualmente, al settennato. I cervelli più fini gli fecero notare che avere un partito perno della maggioranza parlamentare, un premier di fiducia e se stesso a capo dello Stato avrebbe voluto dire, in termini reali, un sistema alla francese in cui lui avrebbe potuto avere la crema del potere, evitandone le immani fatiche.
Lui capiva perfettamente il ragionamento: era caratterialmente che non gli tornava quel conto. Voleva il potere ma anche la gloria e non c'è gloria, se non c'è nemmeno la parvenza di una vittoria elettorale diretta e con un nemico nella polvere.
A questo punto il meccanismo si inceppò. Si inceppò perché di riforme istituzionali sono quarant'anni che si parla ma nessuno è ancora riuscito a vararle.
Le considerazioni oggettive
Ci sono infine le considerazioni oggettive: i numeri, gli astri, il cielo o quel che si vuole per una volta gli furono contrari. Anzi, non una volta: almeno tre. A ogni mandata in cui si trattava di eleggere il Presidente della Repubblica, lui si ritrovava messo male. Ci spieghiamo: Scalfaro se lo trovò già eletto, e durò fino al 1999.
Nel 1999 la maggioranza era di centrosinistra, e ci fu l'accortezza di lanciare fin da subito nella mischia un candidato cui nessuno poteva proprio dire di no. Dissero, quelli del centrosinistra, Carlo Azeglio Ciampi. A Berlusconi e Fini, all'epoca sodali, non restò che dire rispondere "ottimo anche per noi".
Nel 2006, dopo un paio di governi del Cavaliere, ecco di nuovo il centrosinistra a farla da padrone. Ne usci' Napolitano, che era migliorista ma mica graditissimo. Aspettiamo il 2013.
Però nel 2013 vincono le elezioni quelli del Pd. Le vincono in effetti solo a metà e in 101 fanno fuori Prodi, un altro che al Quirinale avrebbe sempre voluto andarci restando con il naso bagnato.
Ma ormai Berlusconi, lo si ammetta, è in fase calante: ha perso Palazzo Chigi da due anni tra le antipatiche risatine di Merkel e Sarkozy. Resta Napolitano e arrivederci alla prossima occasione. Quando questi lascia il Quirinale preso per la mano dalla moglie Clio, forse forse è il momento della zampata del leone. A guidare i democratici c'è infatti quel Renzi che proprio il Cavaliere ritiene, per spregiudicatezza e comuni amicizie, il suo rampollo preferito.
Si mettono persino d'accordo, con Berlusconi che va al Nazareno che è quasi andare a Canossa. Il patto riguarda - ancora una volta - le riforme costituzionali, ma c'è chi dietro vi legge altro. Chissà. Ad ogni modo le riforme saltano con un referendum e alla fine al Quirinale andrà Mattarella.
Berlusconi, che aveva personalmente bloccato l'elezione di Mattarella due anni prima, mastica doppiamente amaro. Il Patto del Nazareno non sopravvive alla sua rabbia. Ma è all'ultimo assalto che la faccenda si fa agra, perché non più tardi di un anno e mezzo fa Mattarella si schermisce, fa sapere che andrà in pensione, non ne vuol sapere di restare un altro settennato.
Fa persino il trasloco in una casa dei Parioli. Berlusconi spera, pensa, si illude e immagina: tocca a me, l'Italia me lo deve. Prima fa chiedere ai suoi un riconoscimento alla carriera e tutti pensano ad un laticlavio da senatore a vita. Poi lancia l'assalto finale, si candida ufficialmente. In tanti plaudono in pubblico mentre in privato si interrogano.
"Ha i voti", asseriscono i fedelissimi, "vedrete". Ma la Fata Morgana svanisce nella nebbiolina di febbraio. E Mattarella rientra dal Portone, con buona pace della sua padrona di casa ai Parioli.
Non è più tempo di gloria, non è piu' tempo di correre, Achille. Questa volta, come non di rado accade, arriva prima la tartaruga.