AGI - Le elezioni politiche 2022 hanno avuto un esito per molti versi tutt’altro che sorprendente: la vittoria del centrodestra, trainato dal boom di Giorgia Meloni e dal suo partito (Fratelli d’Italia) era stata ampiamente prevista da osservatori e analisti. Ciò nonostante, sono moltissimi i dati degni di essere analizzati per comprendere la portata e il significato di questa importante tornata elettorale.
L’affluenza
Cominciamo dall’affluenza, il primo dato eclatante: la partecipazione al voto si è fermata infatti al 63,9%, il dato più basso dell’intera storia repubblicana per quanto riguarda le elezioni politiche. Non si tratta solo di un record negativo in termini assoluti, ma anche del calo più forte che si sia mai verificato tra due tornate elettorali successive.
Come ha notato Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore, un calo del genere può essere spiegato solo in parte da fattori contingenti (come il maltempo che ha interessato molte regioni del Sud nella giornata di domenica) ma che riflette anche fattori strutturali legati alla disaffezione verso la politica, alla destrutturazione dei partiti, al diverso modo di intendere la partecipazione politica tra vecchie e nuove generazioni.
A conferma di ciò, fin dai dati parziali, le analisi di YouTrend hanno mostrato come l’affluenza sia calata maggiormente (rispetto al 2018) nei comuni meno popolosi, con un reddito medo inferiore, e con una percentuale maggiore di disoccupati e minore di laureati.
La gravità della scarsa partecipazione al voto è resa ancor più eclatante dall’elevatissimo numero di voti non validi, ossia di schede bianche e nulle: oltre 1,3 milioni, un dato che in termini assoluti è il più elevato dal 2008 (quando però l’affluenza fu maggiore di oltre 15 punti) e in termini relativi costituisce la percentuale più alta (4,5%) sul totale dei voti espressi dal 2001, anno in cui però si votava con un sistema elettorale diverso (il Mattarellum).
I risultati
Veniamo ai risultati. Dal punto di vista dei voti espressi, anche questa elezione può essere classificata come una (ennesima) rivoluzione elettorale. Sono tantissimi infatti gli elettori che hanno cambiato il loro voto rispetto alla tornata elettorale precedente: almeno il 30% secondo le stime del CISE, un dato molto elevato, inferiore solo ai veri e propri “terremoti” elettorali del 1994 e del 2013. Anche queste elezioni, quindi, confermano come il voto politico in Italia sia divenuto estremamente “liquido” e caratterizzato da una fedeltà elettorale bassissima e da una predominanza netta del voto di opinione.
La vittoria è andata, nettamente, al centrodestra. In termini di percentuale, la coalizione tocca il 44% sia alla Camera che al Senato. All’interno del centrodestra, è Fratelli d’Italia a fare la parte del leone, con il 26% dei voti: da solo, il partito di Giorgia Meloni vale più di Lega (8,8%) e Forza Italia (8,1%) messe insieme. Ancora più impressionante è che, al Senato, la lista di FDI ottiene da sola più voti dell’intera coalizione di centrosinistra (26,01% contro 25,99%).
Una vittoria netta
Nel confronto con i voti presi nel 2018, Lega e Forza Italia risultano dimezzate (o più che dimezzate). Per il partito di Salvini – che peraltro solo 3 anni fa alle Europee aveva ottenuto un incredibile 34% – il bilancio è drammatico, con la perdita di oltre 3,2 milioni di voti, a cui si aggiunge l’umiliazione di essere doppiato da FDI in Lombardia e più che doppiato in Veneto, ossia nelle due regioni tradizionalmente roccaforti del Carroccio.
Forza Italia invece può vedere il bicchiere mezzo pieno: ha conservato il suo zoccolo duro (quell’8% già ottenuto alle Europee), arrivando a un soffio dalla Lega e soprattutto scongiurando il temuto sorpasso da parte del Terzo Polo. Per di più, il partito di Silvio Berlusconi sarà decisivo per la maggioranza di governo sia alla Camera (con i suoi 45 seggi) sia al Senato (18 seggi). Delusione, infine, per la lista Noi Moderati, che si ferma poco sotto l’1% nonostante un risultato discreto (sopra il 2%) in Veneto e Liguria, regioni di elezione di due dei principali ispiratori della lista, Giovanni Toti e Luigi Brugnaro.
Centrosinistra: bilancio drammatico
Passando agli sconfitti: per il centrosinistra il bilancio è drammatico, solo leggermente migliore del disastroso dato del 2018. Rispetto ad allora, il Partito Democratico migliora leggermente la sua percentuale (dal 18,7% al 19,0%), ma in termini di voti assoluti – dato il calo dell’affluenze – arretra di oltre 800 mila voti.
La lista rossoverde dell’alleanza Verdi-Sinistra conferma invece quel milione di voti e poco più che – ormai dal 2008 – la principale lista a sinistra del PD ottiene in occasione di elezioni nazionali, raccogliendo un 3,5% appena sufficiente a eleggere in Parlamento i suoi rappresentanti nella quota proporzionale. Obiettivo sfuggito invece a Più Europa, sia pure di un soffio (lo 0,17% alla Camera e lo 0,07% al Senato) al punto che Bonino e Della Vedova hanno già annunciato di aver chiesto un riconteggio.
Fallisce invece l’operazione della lista Impegno Civico, che si ferma sotto l’1%, e il cui unico rappresentante in Parlamento sarà Bruno Tabacci, eletto nel collegio uninominale di Milano alla Camera, mentre Di Maio è stato sconfitto nel suo collegio a Napoli e non sarà più a Montecitorio, dove sedeva dal 2013.
Quello del Movimento 5 Stelle è invece uno strano caso di “sconfitto vincente”. Con il 15,5% dei voti, M5S ha più che dimezzato il suo bottino rispetto al 2018, perdendo oltre 6,3 milioni di elettori e facendo peggio persino del deludente dato delle Europee 2019, sia in termini di percentuale che di voti assoluti.
Eppure, rispetto alle attese della vigilia, quello che ormai è – a tutti gli effetti – il partito di Giuseppe Conte è riuscito a fare meglio del previsto, fermando l’emorragia di consensi di cui era parso vittima fino alla caduta del Govero Draghi, e riuscendo persino a conquistare diversi collegi uninominali al Sud, dove la campagna del M5S ha funzionato decisamente meglio che altrove. Addirittura, nella provincia di Napoli si ha quasi l’impressione che il tempo si sia fermato, con il M5S che ottiene più del 40% e conquista tutti i collegi uninominali, sia alla Camera che al Senato: proprio come nel 2018.
Per quanto riguarda il Terzo Polo, ossia la lista unica di Azione e Italia Viva, il risultato non è negativo (7,8%, sotto Forza Italia per un soffio) ma sconta inevitabilmente uno scarto eccessivo rispetto alle aspettative – o quantomeno agli obiettivi dichiarati alla vigilia – di Carlo Calenda, che puntava a superare la doppia cifra e soprattutto a rubare voti al centrodestra, impedendogli così di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi e, in tal modo, poter confermare Mario Draghi alla guida del Governo.
Infine, i “piccoli” esclusi. Primo tra tutti ItalExit, il movimento sovranista di Gianluigi Paragone che con l’1,9% si ferma ben sotto la soglia del 3% necessaria a eleggere parlamentari. Peggio ancora va a Unione Popolare, la sinistra radicale “melenchoniana” dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris (1,3%) e ancor meno successo ottengono i “rosso-bruni” di Italia Sovrana e Popolare (1,1%). Una menzione speciale va alla lista di Sud chiama Nord, lista di Cateno De Luca (contestualmente candidato alle Regionali in Sicilia) che sul piano nazionale non raggiunge l’1% ma che raccoglie talmente tanti voti in Sicilia (13%) da riuscire perfino a eleggere ben due candidati nei collegi uninominali di Messina, uno alla Camera e uno al Senato.
La geografia del voto
Da queste elezioni emerge un’Italia spaccata praticamente in due. Innanzitutto, per quanto riguarda la partecipazione al voto: non è una novità che al Sud l’affluenza sia inferiore al Nord, ma questa volta il divario si è ulteriormente accentuato. Come fa notare l’istituto Cattaneo, nel 2018 le regioni del Mezzogiorno – isole escluse – erano state le uniche in cui l’affluenza si era mantenuta in linea con quella di cinque anni prima. Difficile non pensare a una correlazione con il dato di allora del Movimento 5 Stelle, che evidentemente raccolse il voto molti voti di elettori che altrimenti si sarebbero astenuti. Questa volta, il forte calo del M5S anche al Sud – nonostante una tenuta relativamente migliore che altrove – ha portato con sé un vero e proprio tracollo anche della partecipazione generale, che nel Mezzogiorno si è fermata intorno al 55%: quasi 10 punti sotto la media nazionale.
La spaccatura emerge però – e in modo netto – anche nei risultati elettorali. Il predominio del centrodestra (prima coalizione in tutte le regioni, tranne la Campania) è forse l’unica costante che si riscontra da Nord a Sud, ma già guardando il dato delle liste il discorso cambia. Fratelli d’Italia è il primo partito nel maggior numero di province (68) ma dalla Campania in giù il primato passa quasi ovunque nelle mani del Movimento 5 Stelle.
Ma la distanza tra Nord e Sud salta agli occhi anche quando si guarda agli equilibri interni alla neo-maggioranza di governo. Posto che il primato di FDI all’interno della coalizione di centrodestra è indiscusso e piuttosto uniforme sull’intero territorio nazionale, per quanto riguarda gli alleati il discorso è molto diverso: a nord di Roma è infatti la Lega ad essere la seconda forza del centrodestra in tutti i collegi; mentre a sud della Capitale (Abruzzo compreso) è Forza Italia ad essere, senza eccezioni, il secondo partito più votato della coalizione.
Incredibilmente, uno schema quasi identico emerge quando si va a vedere qual è la forza politica più votata della (futura) opposizione. Dal momento che, come si è già detto, il M5S è il primo partito al Sud, non sorprende che sia il partito di Conte a detenere questo primato anche limitatamente ai partiti avversari del centrodestra. Ma, esattamente come per il dualismo Lega-Forza Italia, anche in questo caso in tutte le zone da Roma in su il primo partito dell’opposizione è un’altra forza, ossia il Partito Democratico.
Anche se si guarda al “derby” tra i partiti del fronte moderato (ossia tra Forza Italia e Azione/Italia Viva) si riscontra un dualismo simile, anche se meno netto di quelli appena citati. Il partito di Silvio Berlusconi è davanti alla lista di Carlo Calenda nei collegi del Piemonte (esclusa Torino), della Lombardia meridionale e della Liguria occidentale, e poi in tutti i collegi dal Lazio in giù ad eccezione di Roma e della Basilicata, dove il Terzo Polo è davanti. Semplificando, si può dire che Calenda ha vinto la sfida nelle grandi città, nelle (ex) regioni rosse e nel Nord-Est, mentre Berlusconi ha conservato il suo ruolo di punto di riferimento dei moderati nel Centro-Sud e nelle isole.
È evidente, quindi, come domenica 25 settembre gli italiani abbiano votato in modo decisamente diverso al Nord e al Sud. Secondo un’analisi del CISE queste elezioni sono state un po’ più “nazionalizzate” di quelle del 2018 (quando il M5S sfondò al Sud e la Lega nel Centro-Nord), ma lo sono state meno rispetto alle 4 elezioni politiche precedenti (2001, 2006, 2008 e 2013).
In ogni modo, è emerso chiaramente come alcuni partiti siano più concentrati in alcune zone rispetto ad altre: così, il M5S e Forza Italia si possono definire i partiti più “meridionalisti”, avendo ottenuto rispettivamente il 56% e il 41% dei loro voti a sud di Roma; viceversa, la Lega e il Terzo Polo hanno ottenuto oltre metà dei loro voti nelle regioni del Nord (65% e 57%). Si possono invece definire partiti “nazionali”, con un consenso spalmato in modo non troppo disomogeneo sul territorio nazionale, Fratelli d’Italia, Partito Democratico e Alleanza Verdi-Sinistra.
Flussi elettorali e sondaggi
Le riflessioni post-voto degli osservatori si sono concentrate sui flussi elettorali, cioè sull’analisi dello spostamento di elettori da un partito all’altro. Con l’eccezione delle analisi dell’istituto Cattaneo, che hanno preso in esame i dati di sezione di alcuni importanti comuni, i flussi sul piano nazionale sono stati stimati sulla base dei corposi sondaggi effettuati in corrispondenza del voto. Per la loro stessa natura – trattandosi di dati di sondaggio che si basano sulle dichiarazioni mnemoniche degli intervistati in relazione al voto espresso nell’ormai lontano marzo 2018 – non tutte le analisi prodotte con questa metodologia concordano sull’effettiva misura dei diversi flussi in entrata e in uscita dai vari partiti.
Un’altra considerazione preliminare riguarda la valenza stessa delle analisi sui flussi. Spesso si tende, infatti, a leggerli come una dimostrazione di efficacia (o dell’inefficacia) della campagna di questo o quel partito nel sottrarre elettori agli altri partiti (o viceversa a cederne).
Data l’estrema volatilità elettorale – ormai divenuta non più un’eccezione bensì un fattore strutturale del sistema politico italiano – occorre però tenere a mente che i nuovi elettori conquistati da un partito non “appartenevano” a un altro partito. Probabilmente, il voto espresso in occasione dell’elezione precedente era stato un voto “occasionale”, come lo sono ormai tutti i voti espressi da una quota enorme (e sempre maggiore) di elettori che cambiano partito da un’elezione all’altra, e dal cui orientamento dipende – in ultima analisi – l’esito stesso delle elezioni.
Fatta questa premessa, vediamo cosa dicono i flussi di voto elaborati da YouTrend sulla base delle oltre 4.000 interviste realizzate per l’instant poll commissionato da SkyTG24.
Da questa analisi emerge che il principale fattore che ha consentito a FDI di diventare il primo partito italiano è stato il riposizionamento degli elettori degli altri partiti di centrodestra, ossia Lega e Forza Italia. Un flusso non indifferente è costituito però anche da ex elettori del Movimento 5 Stelle. Tra gli elettori che nel 2018 avevano scelto il M5S, solo il 29% ha confermato il loro voto: meno di quanti (32%) si sono invece rifugiati nell’astensione. La stragrande maggioranza dei nuovi astenuti è costituita proprio da ex elettori del M5S che questa volta sono stati a casa.
Nonostante la sconfitta, il Partito Democratico è riuscito a conservare buona parte (il 56%) dei suoi elettori del 2018, riuscendo anche a far “rientrare” alcuni voti che nel 2018 erano andati al M5S: il 17% degli attuali elettori dei democratici sono ex grillini per così dire “pentiti”. Ma il PD ha avuto anche dei flussi in uscita, inevitabili dopo una legislatura segnata da ben due scissioni: si spiega così il 16% degli elettori del PD (renziano) del 2018 che questa volta hanno optato per il Terzo Polo di Calenda (e Renzi), andando a costituire il flusso più consistente in entrata per la nuova formazione centrista.
Nonostante una composizione piuttosto variegata (un 18% di ex astenuti, un 10% di ex elettori di centrodestra, addirittura un 15% di ex elettor grillini), la maggioranza degli elettori di Azione/Italia Viva (54%) è costituita infatti da chi nel 2018 aveva votato PD, +Europa o altri partiti di centrosinistra, inclusa la sinistra di Liberi e Uguali.
Certo, questi numeri vanno presi con le molle, dal momento che potrebbero risentire di errori statistici come tutte le indagini campionarie. È però il caso di far notare che, mai come questa volta, i sondaggi hanno dato un’ottima prova. A dimostrazione di ciò, confrontiamo innanzitutto i risultati definitivi con la Supermedia YouTrend/Agi di venerdì 9 settembre (ultimo giorno prima del “black-out” imposto dalla legge sulla pubblicazione dei sondaggi).
Come si vede, l’ordine delle liste è stato pienamente confermato. Le variazioni più significative sono verosimilmente il frutto delle scelte dei (tanti) elettori che hanno deciso per chi votare solo nelle ultime due settimane, se non addirittura negli ultimi giorni. Lo “sprint finale” ha quindi premiato – come peraltro molti non hanno mancato di far notare, osservando l’andamento della campagna – il Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e Azione/Italia Viva, mentre hanno penalizzato – anche qui, in modo per certi versi prevedibile – il Partito Democratico e soprattutto la Lega di Salvini. Tutti gli altri partiti hanno ottenuto un risultato che differiva da quell’ultima Supermedia per meno di un punto percentuale.
L’errore medio, infatti, è stato di poco superiore all’1% (1,05 per l’esattezza) ma quello che è forse ancora più interessante da rilevare è che i sondaggi realizzati durante il black-out sono stati ancora più precisi (errore medio 0,6%) e che ancora meglio è andata ai dati diffusi alle 23 di domenica (exit e instant poll, con un errore medio dello 0,55%) e soprattutto alle prime proiezioni, diffuse intorno alla mezzanotte, e che si sono poi rivelate estremamente precise, con un errore medio dello 0,27%.
A conti fatti, si può affermare che grazie all’ottimo lavoro dei vari istituti demoscopici gli italiani hanno avuto la possibilità di conoscere con estrema precisione il risultato delle elezioni già al momento della chiusura dei seggi, o al massimo un’ora dopo soltanto. Un fatto non nuovo, bisogna dire, ma che comunque è giusto far notare quando si verifica.
Il nuovo Parlamento
Come si traducono, concretamente, i risultati che abbiamo visto nelle istituzioni rappresentative, ossia nel nuovo Parlamento? Com’è noto, il centrodestra è risultato nettamente vincitore, ottenendo, con circa il 44% circa dei consensi, una maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Su questo vi sono alcune considerazioni da fare.
Considerazioni finali
Innanzitutto, si tratta di una maggioranza tra le più ampie della storia repubblicana. Dopo la “non vittoria” del centrosinistra di Bersani nel 2013 e il Parlamento bloccato prodotto dal “tripolarismo asimmetrico” delle elezioni 2018, per la prima volta dopo 14 anni le elezioni politiche italiane restituiscono un vincitore certo: con il 59% dei seggi alla Camera (237 su 400) e il 56% al Senato (115 su 206), il centrodestra ottiene una maggioranza di proporzioni analoghe a quelle della Casa delle Libertà alle Politiche del 2001, quando la coalizione allora guidata da Silvio Berlusconi conquistò il 58% dei seggi a Montecitorio e il 55% a Palazzo Madama.
Un’altra considerazione interessante riguarda la quasi perfetta uguaglianza dei risultati nelle due Camere. Un elemento emerso già nelle elezioni 2018, e attribuibile al funzionamento quasi identico del sistema elettorale per i due diversi rami del Parlamento, previsto dal Rosatellum. A questo si è aggiunta, in quest’occasione, l’abbassamento del diritto di voto per il Senato ai diciottenni. Così, lo scarto più ampio tra il risultato di uno stesso partito tra le due Camere è quello di Forza Italia, che al Senato ha ottenuto un misero 0,16% in più rispetto alla Camera (8,11% contro 8,27%), mentre il Partito Democratico è quello andato meglio a Montecitorio, con uno 0,11% di differenza (19,07% contro 18,96%). Se si prendono in considerazione le liste che hanno ottenuto almeno l’1% dei voti, la differenza media nel voto tra Camera e Senato è stata inferiore allo 0,1%.
Differenze infinitesimali, e attribuibili probabilmente a scelte diverse compiute dagli elettori sulla base dei diversi candidati presentati dai vari partiti e forse anche su considerazioni di carattere strategico. Queste ultime, in verità, non erano granché possibili, visto che – a differenza di quanto avvenuto con i sistemi precedenti – il Rosatellum prevede la stessa soglia di sbarramento nelle due Camere (il 3% nazionale) e un sistema pressoché identico di assegnazione dei seggi, ripartizione tra quota proporzionale e quota maggioritaria, e così via.
Il Rosatellum ha 'funzionato'
Come considerazione conclusiva, dunque, è forse il caso di rendere in qualche modo “giustizia” a un sistema elettorale messo sul banco degli imputati all’indomani delle Politiche 2018, e accusato di aver causato lo stallo parlamentare che costò ai partiti usciti vincitori da quelle elezioni (Lega e Movimento 5 Stelle) ben tre mesi di negoziazioni per trovare un accordo di governo.
La “colpa” di quel risultato in realtà era del modo in cui si erano distribuiti i voti degli italiani, che aveva prodotto un tripolarismo in cui la coalizione più votata (il centrodestra) non era andata oltre il 37% dei voti, mentre la seconda forza (il M5S) aveva vinto solo in una parte del Paese (il Sud).
Questa volta, in presenza di una coalizione chiaramente vincitrice, in grado di ottenere una percentuale di voti nettamente superiore al 40%, il Rosatellum ha “fabbricato” una maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento, grazie soprattutto alla quota di seggi assegnata in collegi uninominali maggioritari.