AGI - Pudicamente nascosti sotto un paio di occhiali vagamente demodè, gli occhi di Sergio Mattarella sono - come per tutti, ma mai come nel suo caso - lo specchio dell'anima. Chi può, provi ad osservarli: chiari e taglienti, laddove uno se li aspetterebbe francescanamente remissivi. Essendo egli siciliano, inevitabile pensare a sangue normanno ma, essendo egli siciliano, inevitabile cogliere nell'espressione una nota tutta mediterranea. Insomma, uno se lo immagina già alla corte degli Svevi a mediare tra arabi e tedeschi: un occhio al Gran Blu infestato da corsari berberi e trafficanti pisani, un occhio all'Europa che, lì a nord, aspetta dall'Italia di conoscere il suo destino.
Quanto agli islamici, il signore di Hohenstaufen fu famoso per averli trattati, per quei tempi, con rara comprensione. Mattarella in fondo è proprio così. Pochi mesi dopo la mattanza del Museo del Bardo, in cui fu fatta strage di turisti italiani innocenti, andò di persona a Tunisi tra autoblindo e filo spinato a dire che l'Italia voleva giustizia, ma voleva anche che la democrazia mettesse radici dopo aver fiorito, da quelle parti, in primavera. L'una cosa e l'altra sarebbero state il miglior sbocco per noi e per loro, avendo creato pace e stabilità: miglior premesse per uno sviluppo economico non ve ne sono, come anche per bloccare una delle più affollate rotte di migranti clandestini. E l'Europa tutta ci avrebbe ringraziato.
Prima ancora che a Tunisi, infatti, Mattarella aveva avuto cura di iniziare andando a Berlino. Il Continente è e resta il futuro della Penisola, anche se questa ogni tanto si lascia andare a giri di valzer sovranisti: ma il fenomeno riguarda anche i tedeschi quindi nessun senso di inferiorità. Ma non è da noi l'abbandonare gli amici: altri lo facciano pure, l'Unione ormai è più forte e sicura dei suoi singoli pezzi.
Qualcuno ha in effetti sbattuto la porta, però non saremo certo noi a fare altrettanto. E se quel qualcuno fa lo smargiasso, dicendo che tedeschi e italiani non amano la libertà perché si mettono la mascherina, mentre loro sì che della mascherina se ne buggerano, c'è sempre un appuntamento a Wembley da onorare. Altro che Cool Britannia. Il settennato comunque era iniziato all'insegna del populismo sovranista, anche da noi. La fine invece registra ben altri scenari. In questo lasso di tempo Mattarella ha dovuto tenere insieme l'Italia e gestire il passaggio dalla seconda alla terza fase della Repubblica, e qui torna ancora in mente Federico d'Hohenstaufen.
Si legge infatti nella biografia di Federico II scritta dal Kantorowicz che, all'epoca, si sosteneva essere necessario per gestire l'Italia tenere Milano, essere buoni amici del Papa di Roma e - soprattutto - avere a disposizione ottimi indovini. A giudicare dagli applausi della Scala, Milano è stata tenuta; gli indovini hanno suggerito sagaci soluzioni alle cinque crisi di governo che si sono avvicendate; quanto al Papa, lo si vedrà tra poco. Non che ora il Paese sia un giardino di delizie, ma se non altro il peggio è stato scongiurato.
Alzi la mano chi si sente di affermare che non sia un bel risultato, tanto più che a complicare la transizione ci si è messa anche la peggiore pandemia degli ultimi cent'anni.
Il covid, morbo maledetto, ha ucciso più di 140.000 italiani. Anzi, è da noi che ha cominciato a falciare le sue vittime. Mattarella ha lasciato che i governi governassero, non ha invece lasciato che prevalesse l'etica dell'irresponsabilità. Al contrario. È stata così riscoperta, in un popolo di individualisti, l'etica dello Stato-comunità: ce ne eravamo scordati, a furia di ritenere che gli spiriti animali del mercato fossero in grado di gestire al meglio qualsiasi circostanza.
E tu, Giovanni, ricordati sempre che in certi frangenti nemmeno a un Presidente è lecito andare dal barbiere. Solo una figura, in questi mesi di ansie e di dolore, è riuscita ad essergli per lo meno pari: mentre lui scendeva in perfetta solitudine la gradinata dell'Altare della Patria, in una Piazza San Pietro vuota, buia e bagnata di pioggia Francesco pregava per Roma e per il Mondo, come aveva fatto Gregorio nei tempi della Peste. Immagine che fa tremare i polsi, e che essendo per l'uno speculare all'altro non stabilisce una graduatoria, ma esalta un'amicizia. Venivamo da decenni di pacche sulle spalle tra i nostri presidenti e i papi d'Oltretevere: iniziarono Wojtyla e Pertini per non dire di Napolitano e Ratzinger. Tra Mattarella e Bergoglio si è vista, piuttosto, un'intima profondità di vedute. Per l'uno la politica, per l'altro la Chiesa altro non sono se non ospedali da campo. Fuori di esse ci si fa del male.
Se poi Bergoglio ha i suoi critici da rintuzzare, Mattarella ha avuto addirittura una richiesta di impeachment, che poi in Italia non esiste nemmeno ma vallo a spiegare a chi è convinto del contrario. L'importante è che l'eccentrica idea sia caduta nel vuoto, per non tornare più a galla: dimostrazione dell'inconcludenza della politica dell'urlo. Tra le tante cose che vanno a comporre il lascito di questo Capo dello Stato alla sua Repubblica, c'è anche questa, la forza insoverchiabile della politica del sussurro. Se volete farvi sentire in una curva di hooligans, parlate a bassa voce.
Ci vorrà un po', ma alla fine come d'incanto vi porgeranno tutti l'orecchio. È per questo che, pur senza una mossa eclatante, senza un proclama, senza un coro di media osannanti alla fine Mattarella sia risultato il piu' amato dagli italiani. Talmente amato che lo hanno applaudito nei teatri e nelle piazze, nei convegni e nei palasport e tutti a chiedergli di restare altri sette anni. Ma sette più sette fa quattordici, e quattordici anni dura un re, non il presidente di una repubblica. Non se ne parla, ha risposto lui. E lo ha detto e ripetuto almeno quattordici volte contate: una per ogni anno del suo preteso doppio mandato.
Non che tutti si siano lasciati convincere, che fino all'ultimo giorno qualcuno ha lasciato intendere e persino sperato. Ma nessuno ha osato ricandidarlo ufficialmente, magari guardandolo negli occhi. E si capisce: quelli sono occhi molto taglienti.