AGI - Nel corso del “day after”, le 24 ore successive alla chiusura delle urne, già molto è stato detto su questo primo turno di elezioni amministrative. Alle primissime analisi numeriche dei risultati – via via che questi prendevano forma – si sono aggiunte le innumerevoli letture e considerazioni, da parte di politici e osservatori più o meno terzi.
Restano però molti aspetti da approfondire e da chiarire su queste elezioni, e sul perché questa tornata elettorale in particolare sia stata così significativa. A cominciare dalla distribuzione territoriale del voto. Si è già detto, parlando del dato (molto negativo) dell’affluenza, che quest’ultima ha avuto un andamento disomogeneo, crollando in certe zone (perlopiù periferiche) e mostrando una tenuta maggiore in altre (tendenzialmente centrali). Alla luce di questo elemento, i risultati del voto nelle diverse zone delle città principali ci forniscono un’ulteriore chiave di lettura.
Partiamo da Roma, sicuramente il caso più interessante non solo per il peso (demografico e politico) della sfida, ma anche perché qui erano in corsa ben 4 candidati molto competitivi: la mappa del voto nei 15 Municipi in cui è suddivisa la Capitale ci mostra una città contrassegnata essenzialmente da un “doppio bipolarismo”. Nei quartieri centrali (il 1° e il 2°, ma anche nel 12°) la sfida è tra Roberto Gualtieri e Carlo Calenda; mentre i quartieri periferici sono quelli in cui raccolgono i propri risultati migliori sia Enrico Michetti che Virginia Raggi.
Con queste premesse, l’esito del ballottaggio diventerà interessante anche per vedere come si sposteranno i voti dei candidati esclusi (Calenda e Raggi) nei diversi quartieri, a seconda della loro collocazione rispetto all’asse centro/periferia.
Diversa la situazione a Torino, dove il contesto ricalca un più classico bipolarismo: le mappe in questo caso mostrano come il centrosinistra con Lo Russo sia più competitivo nei quartieri centrali, mentre il centrodestra con Damilano vada meglio nelle zone collinari (sud-est) e nella periferia nord della città. Nel caso di Torino, l’analisi territoriale rivela anche una ripresa di competitività da parte del centrodestra rispetto a ciò che si era visto nel voto cittadino degli ultimi anni.
Meno scontata è la situazione che vediamo a Napoli, dove – vista la vittoria “bulgara” di Manfredi al primo turno – si potrebbe essere tentati di derubricare come poco importante la distribuzione territoriale del voto. Ma non è così: anche in presenza di un esito così sbilanciato, infatti, la mappa del voto nelle 10 Municipalità mostra come Manfredi abbia le sue zone di forza non tanto in quelle che furono già di De Magistris negli ultimi 10 anni (il quartiere collinare del Vomero), ma nel quartiere semicentrale di San Carlo all’Arena e in quelli della Napoli orientale, bacino storico della sinistra operaia.
Al contrario, nonostante un risultato complessivamente deludente, Maresca ottiene risultati discreti nel quartiere benestante di Posillipo, storica “roccaforte” del centrodestra napoletano, oltre ai quartieri della periferia settentrionale (Pianura, Piscinola, San Pietro) dove sfiora o supera il 30%.
Ma l’analisi territoriale può interessare – se non altro per ragioni di spazio – solo alcuni dei comuni principali, in una tornata che ha visto comunque andare al voto oltre 1.000 amministrazioni (di cui oltre 100 comuni superiori a 15.000 abitanti). Un’analisi approfondita del bilancio non può quindi ignorare l’aspetto aggregato, ossia il numero di amministrazioni che “cambiano colore” da un’elezione all’altra (un criterio molto sensato da utilizzare, quando c’è da capire il significato politico di un’elezione). Non vi è dubbio che, da un lato, per un bilancio aggregato si debba necessariamente attendere l’esito dei ballottaggi; e che, dall’altro, il “peso specifico” di alcuni risultati (cioè quello dei comuni maggiori) renda questo criterio meno saliente che in altre occasioni. Tuttavia, è comunque possibile tirar fuori delle considerazioni significative, considerando che in quasi 60 comuni superiori vi è già un vincitore al primo turno.
Il bilancio “secco” mostra una situazione di sostanziale parità tra centrodestra (20 comuni vinti) e centrosinistra (18). A questi vanno aggiunti gli 8 casi in cui il centrosinistra vince con il M5S in coalizione (come Napoli e Bologna) e i 4 in cui a vincere è una coalizione di destra (Lega e/o FDI senza Forza Italia o centristi alleati).
Come mostra il grafico interattivo, le vittorie per la coalizione PD-M5S arrivano nella gran parte dei casi in realtà in cui la giunta uscente era già un’amministrazione di sinistra o centrosinistra. Fa riflettere, inoltre, come il M5S migliori sostanzialmente il proprio bilancio rispetto al 2016, sia pure in presenza di un dato molto peggiore sul piano della consistenza elettorale: è il grande “segreto” delle alleanze pre-elettorali nei sistemi maggioritari, quello di consentire a forze politiche di aumentare la loro influenza partecipando a coalizioni di governo, in misura maggiore rispetto agli scenari di corsa solitaria.
Se spostiamo lo sguardo ai comuni che invece conosceranno un esito soltanto tra due settimane con i ballottaggi, la dinamica emergente sembra quella di un “nuovo bipolarismo” (che somiglia molto, però, a quello “tradizionale”) con oltre la metà dei 60 comuni ad ospitare una sfida tra centrodestra/destra e centrosinistra (con o senza M5S in coalizione). In altri 18 casi a sfidare il candidato di queste due coalizioni principali ci sarà un candidato civico, mentre il M5S in solitaria sfiderà in 7 casi un candidato di centrodestra e in altri 2 uno di centrosinistra. Da segnalare anche le due sfide “interne” tra un candidato di centrodestra e uno di destra. Nel complesso, le Amministrative si confermano un test elettorale a geometria variabile, sia pure con uno schema emergente nettamente prevalente sugli altri (e cioè il bipolarismo già citato).
Dicevamo prima della scarsa performance del M5S sul piano dei voti alle liste: questa débâcle emerge dal computo dei voti alle liste nel totale dei 118 comuni con più di 15 mila abitanti (dove il sistema elettorale non disincentiva la presentazione di più liste di partito coalizzate, diversamente da quanto avviene nei comuni inferiori). Il confronto con il 2016 è piuttosto illuminante: se mettiamo da parte la quantità “monstre” di voti andati a liste civiche o di dubbia affiliazione politica (43,9%), la lista del PD emerge come quella complessivamente più votata, con il 18,8% – identica percentuale ottenuta in occasione delle Amministrative 2016. Il Movimento 5 Stelle, che in quell’occasione fu la seconda lista con il 17,4%, oggi precipita al 6,3%. Anche Forza Italia dal 2016 perde terreno, scendendo dal 7,2 al 4,8%. Crescono invece la Lega (da 5,2 a 7,4 per cento) e soprattutto FDI, che 5 anni fa fece registrare il 4,6% e oggi è la seconda lista dietro il PD con l’11%.
Ma non sono certo le liste di partito i protagonisti di un’elezione amministrativa. Questa qualifica spetta invece ai candidati sindaco, che in un sistema ad elezione diretta possono essere decisivi nella determinazione del risultato finale. C’è innanzitutto da segnalare come in questa tornata gli elettori che hanno espresso un voto solo per un candidato sindaco (ma non per una lista) siano in linea con il passato. Se guardiamo ai 4 comuni maggiori, notiamo come il numero di voti “solo sindaco” sia sostanzialmente stabile rispetto al 2016: esattamente come 5 anni fa, si tratta di circa il 6% a Milano, Napoli e Torino, e un po’ di più (9,3% nel 2016, 8,6% oggi) a Roma.
Questo ci porta dritti al passo successivo: ci sono candidati che (in termini relativi) hanno fatto meglio delle proprie liste, e altri che invece hanno fatto peggio. Tra i primi (chi ha fatto meglio) possiamo citare Raggi (+1,4%) e Calenda (+0,8%) a Roma, Sala a Milano, Bassolino e Maresca a Napoli; tra i secondi (chi ha fatto peggio) invece troviamo Gualtieri e Michetti a Roma, Bernardo a Milano, Manfredi a Napoli.
Un’ulteriore indicazione del gradimento “diretto” verso i candidiati sindaco, poi, sono naturalmente le liste civiche direttamente afferenti a quei candidati. In termini assoluti, la lista di maggior successo in questo senso è quella “Calenda Sindaco” che ha raccolto 192.102 voti, seguita – a debita distanza – dalla lista Gualtieri (54.372 voti) e da quella per Virginia Raggi (43.212), e poi dalla lista civica per Beppe Sala a Milano (41.135 voti) e da “Torino Bellissima”, lista civica per Damilano che si è rivelata anche la più votata nel centrodestra con 35.658 voti; senza dimenticare la lista Manfredi, che 32.318 voti si è piazzata alle spalle del solo PD il primato di lista più votata della città
Com’è ovvio, la classifica dei voti assoluti risente della dimensione del comune: ma anche ricorrendo ai voti in percentuale, non cambia molto, con Calenda Sindaco al primo posto (19,1%) seguita però da Torino Bellissima (11,9%), Manfredi Sindaco (9,9%), Beppe Sala Sindaco (9,1%), Gualtieri Sindaco (5,4%) e dalla civica di Virginia Raggi (4,3%).