AGI - Nicola Zingaretti si dimette. Due mesi di bombardamenti sul Nazareno, da fuori il Partito Democratico, ma soprattutto da dentro, attraverso il "fuoco amico" divenuto ormai la cifra di questo soggetto politico, hanno convinto il segretario a fare un passo indietro. "Per amore del partito e dell'Italia", spiega in un post su Facebook. Dice di "vergognarsi che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni".
Parole nelle quali emerge il profilo dell'amministratore, del presidente di Regione che, da un anno, è in prima linea nella lotta alla diffusione della pandemia nel territorio che amministra. Il primo ad aver affrontato l'emergenza, dalla sera in cui i due cittadini cinesi sono stati portati all'ospedale Spallanzani con i sintomi del Covid. Dentro il partito, Zingaretti combatteva una guerra diversa, contro le correnti, utilizzando un "approccio unitario" come terapia. Subito dopo la sua elezione a segretario, esattamente due anni fa, ha tirato dentro la segreteria tutte le aree politiche, dagli orlandiani ai franceschiniani, compresi quelli di Base Riformista che nelle ultime settimane lo hanno inquadrato nel loro mirino.
Una strategia necessaria anche perchè Matteo Renzi, prima della sconfitta alle politiche del marzo 2018, aveva provveduto a formare le liste elettorali per assicurarsi una larga maggioranza nei gruppi. Così, anche quel 66 per cento di consenso alle primarie che gli avevano garantito una larga maggioranza in assemblea e in direzione si è rivelato inutile a gestire il partito. La strategia improntata all'unità, tuttavia, ha dato i suoi frutti, almeno all'inizio. Già nell'estate del 2019, a quattro mesi dalla sua elezione a segretario, la guerra intestina al governo giallo-verde pose al pd il problema della strategia da adottare. Poco prima della fine del primo esecutivo Conte, nel partito si pose il problema se andare ad elezioni o sostenere una soluzione parlamentare. A Zingaretti il voto avrebbe fatto molto comodo, non fosse che per ritrovarsi dei gruppi parlamentari vagamente somiglianti alla maggioranza negli organi del partito.
Fra le aree che lo sostenevano, a cominciare da Areadem, l'avviso era tuttavia diverso. Troppo alto il rischio di perdere mandando al governo una destra estrema e nazionalista che avrebbe anche eletto il presidente della Repubblica. Così, a un primo sdoganamento dei Cinque Stelle - fino ad allora un tabù nel Pd - da parte di Matteo Renzi, ne seguì un secondo da parte di Dario Franceschini. E il Conte II si trasformò in realtà. Zingaretti questi passaggi, come tutti gli altri, li affronta passando per gli organi statutari, dove via via ottiene sempre una maggioranza unanime.
Al momento di scegliere i ministri Pd, si ricomincia a lavorare di bilancino per accontentare le varie aree. Così, il leader di base Riformista, Lorenzo Guerini, diventa ministro della Difesa; Dario Franceschini, punto di riferimento di Areadem, va alla Cultura e via così, a scendere nei ruoli di sottogoverno, con le ex renziane Alessia Morani e Simona Malpezzi sottosegretarie al Mise e all'Istruzione. Qualche ora dopo, però, Matteo Renzi annuncia l'uscita dal Pd e la creazione di Italia Viva. Porta con sè il numero sufficiente di eletti per formare i gruppi (al senato avrà bisogno dei socialisti per avere nome e simbolo). Nelle fila parlamentari dei dem rimangono alcuni ex fedelissimi, primo fra tutti il capogruppo a Palazzo Madama, Andrea Marcucci.
L'alleanza con i Cinque Stelle apre anche la questione del posizionamento del Pd. Nessuno, al congresso, si è presentato con una mozione che contemplasse un simile scenario. Si comincia - è l'autunno 2019 - a mormorare la parola "congresso". Zingaretti apre la Costituente delle Idee, un percorso di discussione che parte a novembre, da Bologna. Il Pd afferma la sua identità di partito con vocazione maggioritaria, ma rinuncia alla declinazione che ne aveva dato Renzi, ovvero nessuno alleanza. Insomma, un partito progressista e riformista che aspira a essere perno di una coalizione larga di centro sinistra.
Tutto questo rimane, però, sulla carta. L'arrivo della pandemia cambia tutto, le liti fra le correnti sono sospese. Zingaretti vive anche la malattia: per 23 giorni rimane chiuso in casa, assistito dal suo medico di fiducia. Passano i mesi del lockdown, il partito ne esce rafforzato grazie anche al lavoro fatto dal segretario che è sul podio dei leader che godono di più fiducia fra gli elettori. Ma con l'autunno, il governo Conte comincia a scricchiolare sotto i colpi di Matteo Renzi. E' una buona notizia come l'arrivo delle risorse del Recovery Fund, paradossalmente, a innescare la crisi.
A dicembre si parla di rimpasto, ma dopo le feste la strada del Conte II appare segnata. Zingaretti si propone all'ufficio politico, prima, e alla direzione poi di sostenere la linea a favore del premier uscente, considerato unico punto di equilibrio nella coalizione di centro sinistra. Dopo le dimissioni di Giuseppe Conte (che ottiene una fiducia risicata in Parlamento) il Presidente della Repubblica, però, incarica Roberto Fico di verificare se ci sia una maggioranza sui temi prioritari della legislatura e, fallito il tentativo, incarica Mario Draghi.
Si lavora alla formazione del nuovo governo e ancora una volta, Zingaretti usa l'unità come unica bussola. Accontenta le correnti e non chiede posti per sè o per i suoi fedelissimi. Tra i ministri, però, non c'è nemmeno una donna e questo apre la batteria delle minoranze contro il nazareno, con alcuni parlamentari vicine a Matteo Orfini in prima linea. Nonostante Lorenzo Guerini sia stato riconfermato alla Difesa, i malumori si allargano a Base Riformista che chiede esplicitamente il congresso. Così per venti giorni. Fino ad oggi e al post, dai toni inediti per Zingaretti: "Mi vergogno che nel Pd si parli solo di poltrone in piena pandemia".