AGI – Ci risiamo: non aveva fatto in tempo a ricordare (cioè festeggiare, ma non si può dire per non urtare sensibilità minoritarie interne) i cent’anni dello strappo da cui nacque il Pci, che il Pd se ne trova un altro – l’ennesimo - In casa sua. Si dirà, ed è vero, che nel ’21 di cent’anni fa di scissione si trattò, e questa volta sono semplici dimissioni segretariali.
Giusto, ma scissione e dimissioni sono concetti fratelli, soprattutto da certe parti; inoltre ricorderemo che lo stesso Gramsci, almeno nelle serissime teorie di quello specialista che era Giuseppe Fiori, alla fine della sua vicenda personale era rimasto fuori dalla sua creatura, primo segretario e primo segretario nei fatti dimissionato.
Si dirà anche, ed anche questo è vero, che il Pci è una cosa, il Pd ben altro. Benissimo, ma allora non si capisce il perché di tante commemorazioni, un paio di mesi fa. Comunque se c’è una cosa che unisce le varie fasi della storia del Pds-Ds-Pd con quel che c’era prima è proprio la dimissione del segretario.
Se infatti Togliatti e Berlinguer scomparvero ancora in carica, e ben saldi in sella, a causa di un malore, Natta una volta colto da malore fu messo da parte ancor più seccamente dello stesso Gramsci. Ancora nel 2001 la vedova, Adele Morelli, ricordava con dolore il marito, ancora segretario, sofferente nel letto di ospedale quando “accendiamo la radio, il Gr annuncia: la direzione nazionale del Pci avrà sul tavolo le dimissioni di Natta. Mio marito impallidì, per poco non gli venne un altro coccolone. Non aveva scritto nessuna lettera, nulla”.
La fine di Uolter
Achille Occhetto fu colui che gli successe ma, se il suo era stato un colpo di mano, gli si ritorse contro. Anche per lui vale un ricordo, questa volta personale: “Sono stato io a scegliere di andarmene dal Pds perché già da allora era iniziata la linea dei complotti. D’Alema era maestro dell’organizzazione di questi gruppi di apparato“.
Sorgeva così, dalle ceneri di Gramsci ma anche di Natta e poi pure Occhetto, un doppio mito degno dell’araba fenice: il cattivismo dalemiano (sapientemente alimentato dal diretto interessato) ed il buonismo veltroniano (ugualmente insufflato da lui medesimo). L’uno il Doppelgaenger dell’altro, e poi vai a capire chi era veramente il buono o il malamente.
Soprattutto era crollata un’altra cifra della storia delle sinistre italiane: l’idea dell’incorruttibile unitarietà dei vertici. Incarnata, fino ad Occhetto, dal principio del centralismo democratico, poi dalla pretesa di unità di teoria e prassi. Infine crollata sotto i colpi della prassi, sempre più machiavellicamente forte rispetto ad una teoria che si andava consumando come un moccolo. È la socialdemocrazia, bellezza, e non ci puoi far niente.
La lunga marcia attraverso la socialdemocrazia, iniziata con la visita di Occhetto alla City di Londra nel ’93, ha trovato il suo apice con la nascita del Pd, che in fondo le dimissioni le ha stampate nel dna. Prime quelle di Prodi, il cui secondo tentativo a Palazzo Chigi proprio nel Lingotto trovò l’avviso di sfratto.
Ma questa è un’altra storia. Perché di partito parliamo, ed il Partito che si voleva asse portante di un sinistra-centro e a vocazione maggioritaria in un paio d’anni si dovette confrontare con la sconfitta, e non solo quella delle politiche del 2008. A far scoppiare il bubbone fu la Sardegna, e fu la fine di Uolter.
Veltroni, demiurgo Democratico a Torino, era già sulla graticola da almeno dieci mesi: aveva dovuto assistere allo spettacolo del suo sogno che perdeva i pezzi nemmeno fosse stato il Frankenstein di Mel Brooks.
“Si può fare” è frase che sarebbe continuata a piacergli, ma nel 2009 gli piovve tutto addosso: Roma alla destra, fischi al congresso socialista, alleati esterni riottosi (Di Pietro) ed infidi partner interni. Anche qui la sindrome che aveva colpito il Pds di Occhetto: i pugnalatori. “Franceschini uno dei pochi leali” confidò Veltroni a qualcuno di molto importante, lasciando la segreteria al suo vice nato nella Dc.
Lui, però, Franceschini intendiamo, per l’appunto democristiano d’origine era, e nel Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana aveva fatto nelle scuole dell’obbligo. Ergo, certe cose le intuiva al volo e siccome non voleva fare la fine del suo vecchio mentore De Mita con la Corrente del Golfo, tenne la barra con onestà per nemmeno un anno e portò tutti alle primarie. Alle quali si candidò, perdendo più che onorevolmente con Pier Luigi Bersani.
L'unico che sopravvive è l'ex democristiano
Però: nessuna dimissione, nessuna dismissione. Era il prezzo da pagare per restare in corsa nel lungo periodo, e continuare a contare qualcosa nel partito che in fondo aveva sognato fin dai tempi della sua breve esperienza postdemocristiana nei Cristiano-sociali.
Pier Luigi non apprese ben quell’arte.
Quattro anni resistette, il segretario tecnocratico, fino ad aspirare legittimamente a Palazzo Chigi. La vocazione maggioritaria era impallidita ma la maggioranza relativa qualche legittimo diritto glielo poteva riconoscere. Picchiò contro i 101 piccoli pugnalatori in erba che gli impallinarono Franco Marini al Quirinale, poi Giorgio Napolitano fece il resto affidandogli un incarico a mezzo servizio. Rimise il mandato, lasciò la guida della Ditta e, come da copione, gli successe il capo dei complottardi.
Indicato come tale, Matteo Renzi, lo è da tutti. Lui continua a negare e ne prendiamo atto, ma prendiamo atto che le voci in senso contrario sono largamente maggioritarie, e che lui stesso del sistema maggioritario è un sostenitore dichiarato.
Renzi i complottardi veri o presunti li chiamava gufi e rosiconi, e se le critiche gli arrivavano dall’Economist rispondeva mangiandosi un cono gelato. Alla fine si dimise pure lui, da premier prima e segretario poi. A farlo secco comunque non era stata una congiura di palazzo, ma un referendum che lui stesso aveva trasformato in un plebiscito sul suo mandato politico (la prima volta), come più tardi una sonorissima sconfitta elettorale (la seconda).
In tutta questa storia di dimissioni, quelle di Renzi sono le più necessitate come anche le più necessitanti. Lo si vedrà nell’arco di un paio d’anni. Vale a dire oggi, che Zingaretti abbandona il posto tra cento sospetti di quinte colonne e false amicizie.
Se nel frattempo, a ribadire la convergenza tra dimissioni e strappo a sinistra, Bersani se ne era andato a fondare Leu, Renzi ci metterà un po’ di più ma farà altrettanto. Dimissioni-secessione, e chi se ne importa se poi i sondaggi non ti premiano.
Cent'anni e sentirli tutti
Quando fu eletto alle primarie Zingaretti fu accolto da un grido di speranza: ai gazebo c’erano andati in quasi due milioni. Alla faccia di chi dava il partito per morto. Dura poco: scatta, di nuovo, la sindrome del complotto, del lavoro ai fianchi, della consumazione del segretario, manco fosse un segretario democristiano.
Ma, e qui ci sarebbe da riflettere, questa volta non si tratta di pochi affossatori, quanto piuttosto di dissenso organizzato in correnti. Il cerchio si è chiuso, il ciclo storico completato. È il sistema che ha fagocitato il Pd, non il Pd che ha imposto al sistema la sua vocazione.
Achille Occhetto guarda e commenta: le dimissioni di Zingaretti sono una tragedia, il massacro interno al partito pure. Ma che ci cuoi fare, il tempo non torna più. E se torna è per rimproverarti con un “io te lo avevo detto”, perché forse forse avevano ragione loro, i comunisti, quando imponevano il centralismo democratico e precettavano un “nessun nemico a sinistra”.
Saggezza di cent’anni fa.