In uno “shtetl”, villaggio ebraico della Russia zarista, un padre vorrebbe maritare le figlie secondo la tradizione, ma alla fine cede ai loro desideri. Sulla allegra e colorata comunità yiddish incombe però un “pogrom” e, dopo una serie di matrimoni tradizionali, discussioni, musiche, tutti gli ebrei del villaggio fanno i bagagli e scappano in direzioni diverse, dando vita a una piccola diaspora.
È la trama del Violinista sul tetto, il musical di Jerry Bock che fra gli anni ’60 e ’70 fu uno dei grandi successi di Broadway, il primo a superare le 3 mila rappresentazioni. Il titolo richiama un famosissimo quadro di Chagall, Il violinista, che si trova allo Stedelijk Museum di Amsterdam.
In Italia il musical è arrivato grazie al poliedrico cantore della tradizione yiddish, Moni Ovadia, che l’ha portato in scena per la prima volta nel 2003 con le parti parlate tradotte in italiano e quelle cantate in yiddish. Nella versione originale è tutto in inglese.
Ora Il Violinista torna al Teatro Nuovo di Milano, sempre con Ovadia alla regia, coadiuvato da Elisa Savi, e nel ruolo del protagonista. Tevye è un venditore di latte e formaggi che parla direttamente con Dio, a cui si rivolge chiamandolo “Signore dell’Universo”, per raccontargli le sue preoccupazioni quotidiane e lamentarsi della forte personalità della moglie Golde e delle figlie.
A 73 anni, il regista/protagonista canta e balla sul palcoscenico di piazza San Babila attorniato da una nuova compagnia in buona parte siciliana, e in un’intervista all’Agi ha parlato dello spettacolo e non solo. Sabato 2 marzo la sua Milano protesta contro il razzismo.
Ovadia, che si dichiara stufo dei partiti e della attività politica, mantiene però l’impegno per le cose che lo interessano: “Sono un militante, un attivista, sostengo le cause di Amnesty, di Emergency, dei diritti del lavoro, dei migranti: tutto ciò che riguarda i diritti sociali e civili mi vedrà sempre in prima linea, però i partiti non mi avranno più”.
Pensa che ci siano pericoli di nuovi “pogrom” come quello che fa scappare dal loro villaggio i protagonisti del Violinista?
“L’argomento mi sembra attualissimo: si parla di gente che è cacciata perché è ebrea, perseguitata e vessata. Oggi questo non riguarda gli ebrei ma molti altri però. Credo che attaccare gli ebrei in maniera sistemica abbia un deterrente di una tale forza che lo vedo difficile”.
“Ciò non esclude che l'antisemitismo sia una latenza che riemerge. Assistiamo a un fenomeno interessante: si può essere ultra filo-sionisti e al tempo stesso antisemiti. Tutta la feccia antisemita americana vota Trump, che è notoriamente ultra filo-sionista. La verità è che c'è una latenza antisemita nel sionismo, quando pretende che tutti gli ebrei devono stare in un posto e non dove piace a loro”.
“Io assolutamente non metto in discussione l'esistenza dello stato di Israele nei suoi confini legittimi che sono quelli della ‘green line’. Ma non sono sionista, ho anzi una ripulsa per il sionismo perché oggi ha rivelato la sua vera natura di nazionalismo fanatico e ultra reazionario: come io posso condividerlo, visto che gli ebrei sono stati sterminati da nazionalismi fanatici e ultra reazionari?”
“La sola parola ‘patria’ mi mette i brividi alla schiena a meno che non sia quella della coprotagonista, la moglie di Tevye, Golde, interpretata dalla bravissima Lee Colbert, quando alla fine dello spettacola parla di ‘piccola patria dell'anima’”.
Che ruolo ha la religione ebraica nel testo, tratto da un racconto scritto all’inizio del ‘900 da Sholem Aleichem?
“Tevye rappresenta secondo me il migliore valore dell’ebreo, secondo il quale va bene la religione, ma l'umanità è più importante, e va bene la tradizione, ma quello che conta è l'umanità”.
“Nella Torah (il testo riferimento della tradizione religiosa ebraica, ndr) è scritto, nel Deuteronomio, che a proposito dei precetti dell'ebraismo, ‘vivrai in essi’, e i maestri hanno commentato che ‘i precetti sono per la vita non la vita per i precetti’. Tanto è vero che nella normativa rigorosissima ebraica è detto che per salvare una vita umana si può trasgredire qualsiasi precetto tranne quello di non uccidere”.
Si avvicinano le elezioni europee: nel 2014, lei fu eletto con oltre 33 mila voti con la lista “L’altra Europa per Tsipras” ma rinunciò al seggio. Non ripeterà l’esperienza?
“È vero, ho avuto un sacco di voti e ho lasciato il mio posto a Curzio Maltese: avevo detto da subito che non sarei andato a Strasburgo, per due ragioni: la prima, perché non voglio fare il politico, e la seconda, perché ho una compagnia di gente, oltre a produzioni e distribuzioni che dipendono da me”.
“Mi ero candidato per aiutare un progetto nel quale ho creduto, ancora una volta povero ingenuo illuso: anche in quel caso è stato semplicemente uno strumento perché i partitini della sinistra facessero gli affari loro”.
“Ora per me è chiusa perché i partiti hanno rivelato la loro natura: quando tu vivi in un’Europa minacciata dai populismi ultra reazionari fascistoidi e pensi solo alle beghe interne vuol dire che non sei di sinistra. Non muoverò un'unghia finché non nascerà una forza politica degna di questo nome e per me c'è una precondizione: si saltano due elezioni, si studia, si prepara una piattaforma e si punta su una classe dirigente non compromessa”.
“Non posso mettere la mia faccia di persona per bene, gute mentsh come si dice in yiddish, con persone corrotte. E per ora punto sulle persone specchiate, in questo caso sulla co-presidente dei Verdi europei, Monica Frassoni”.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
“Sto lavorando a un testo teorico sull’umorismo, non una summa perché non voglio che sia un’enciclopedia ma una riflessione sul senso molteplice dell’umorismo, quello inglese e africano oltre a quello ebraico. Wittgenstein diceva che un saggio filosofico serio e fondato dovrebbe consistere di barzellette”.
“È stato ripreso dallo studioso sloveno Slavoj Zizek con le sue 107 storielle, un saggio di filosofia. Io vorrei che il mio libro sia intitolato Per una critica della ragion umoristica paradossale, parafrasando Kant. Non sarà un librone, e l’editore ce l’ho già, è La nave di Teseo, devo solo firmare”.
“Poi ho in mente un libro sugli animali, partendo dalla battuta sul fatto che una donna di classe non porterebbe mai una pelliccia, perché sta molto meglio addosso ad altri, ovvero agli animali. Ho anche un progetto a Palermo: una installazione teatrale dall’opera più nota del teatro yiddish, il Dibbuk di Sholem An-Ski, in forma di scultura”.
“Ho un rapporto molto forte con la Sicilia, per me è casa: ho messo in scena nel 2015 le Supplici di Eschilo in ottava rima siciliana. È stato un successo inimmaginabile. E poi ci sarà la tournée del Violinista, che la produzione ha previsto per la stagione 2019-2020”.