Sornione e avveduto com’era, non poteva che nascere giocando d’anticipo, ed ecco che Giulio Andreotti venne alla luce bruciando sul tempo persino Don Luigi Sturzo. Il buon Sturzo, dopo una ventina d’anni di faticosa gestazione, lanciava il suo Appello ai Liberi e Forti il 18 gennaio 1919: un passo destinato a scrivere un bel pezzo di storia italiana del XX secolo. Non sapeva, Sturzo, che era già nato da quattro giorni chi quella storia non l’avrebbe solo scritta, ma l’avrebbe addirittura fisicamente rappresentata. Di più, l’avrebbe fatta sua, e di sé avrebbe fatto storia, o meglio quello che della storia, dai tempi di Tacito in poi, è la quintessenza. Cioè la politica.
Andreotti era, a vederlo e a parlarci, al tempo stesso consustanzialmente uomo e politica, e non c’era verso di distinguere l’una natura dall’altra. Era come intessuto di politica: negli atteggiamenti, nelle parole, nelle mani, nei capelli che una volta spedì ad un detrattore che sosteneva li tingesse.
Il Segretario di Stato
Beniamino Placido, da brillante intellettuale qual era, in un suo saggio lo paragonò al Conte Zio dei “Promessi Sposi”: un machiavello il cui scopo era quello di sopire e troncare, mantenendo uno statu quo in cui l’Italia irrimediabilmente sarebbe finita sotto il tallone delle truppe di Wallenstein.
Niente di più sbagliato. Andreotti non era un Machiavelli di terz’ordine. Tutt’altro. I palati fini lo hanno avvicinato, piuttosto, al Cardinal Consalvi, e non solo per la sua chiara impronta romana e non poco papalina (inevitabile, per chi cresce tra Via Giulia e la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini).
Il Consalvi fu segretario di stato di Pio VII, prima e dopo Waterloo. Ohibò, inorridiscono gli animi laici e risorgimentali: l’emblema dell’oppressione delle spinte innovatrici. E invece, a guardar bene, il Consalvi fu tutto men che questo: affezionatissimo al suo papa, ma pronto a gestire con chiarezza di intenti gli interessi del suo Stato, che poi era quello della Chiesa. E di farlo anche firmando un Concordato con l’arcinemico Napoleone, o applicando con mano leggera i dettami della Restaurazione, che i sovrani europei volevano imposti con ben altra crudezza. In più – ed il particolare non è di poco conto – con un occhio allo sviluppo delle arti, ivi compresi gli stili importati dalla Francia, e all’inserimento di Roma nel grande gioco delle capitali europee. A guardar bene, in Andreotti c’era molto di questo.
Tra Venezia ed Hollywood
Criticò ad esempio il neorealismo (sbagliando) ma a Venezia ci andava per promuovere il cinema italiano, previo permesso di De Gasperi che però gli consigliava di portarsi dietro la moglie: l’ambiente era peccaminoso. Fu lui a varare una leggina, ora dimenticata, per cui Hollywood si spostò sul Tevere, dacché conveniva produrre in Italia piuttosto che in America. Questi i termini: il produttore aveva costi abbattuti per la creazione del primo film, in cambio ne doveva realizzare anche un secondo. Scattò un meccanismo virtuoso per cui tutti venivano a Roma, e fu così, grazie in fondo ad Andreotti, che Anita Eckberg finì nella Fontana di Trevi a farsi ammirare da Marcello Mastroianni, e Walter Chiari poté innamorarsi, ricambiato, di Ava Gardner, e tutti ancora lo invidiamo. Quanto al neorealismo, ci fu tempo per far la pace con De Sica.
L’astio della Thatcher
Se si pensa poi a Roma ed al gioco delle grandi potenze, non si può ignorare che Andreotti – ministro degli esteri per quasi tutti gli anni ’80 – fu uno dei grandi realizzatori del progetto europeista. Per capirne il peso, basti sapere che di lui Margaret Thatcher parlava con lo stesso astio che Henry Kissinger riservava nelle sue memorie ad Aldo Moro. Pare che tutto nascesse da un vertice europeo, ai tempi in cui l’Unione si chiamava ancora comunità economica. La Lady di Ferro si incaponiva con il suo famoso “I want my money back” per ottenere la restituzione dei fondi in eccesso che ogni anno, a suo dire, Londra versava a Bruxelles. Andreotti, che si era messo d’accordo con Helmut Kohl, tirò fuori una cartellina fitta di appunti e di cifre, e le dimostrò che semmai Londra di soldi ne doveva dare ancora. La Thatcher, poco abituata alla sconfitta, non lo perdonò mai. In compenso se Boris Johnson e Nigel Farage avessero studiato un po’ di più la storia di quegli anni forse avrebbero evitato il referendum sulla Brexit.
Il Caso Moro
Si diceva di Aldo Moro. Per uno dei tanti paradossi della Storia, fu Andreotti, non certo un esponente della sinistra democristiana, a guidare nel 1976 un governo retto dall’astensione del Pci, preavviso all’eventuale ingresso dei comunisti nella stanza dei bottoni di un paese della Nato. La democrazia italiana si apprestava a divenire matura, come proprio Moro desiderava. Due anni dopo il Pci avrebbe addirittura votato a favore di un nuovo governo Andreotti. Ma le circostanze erano eccezionali, perché poche ore prima proprio Moro era stato rapito dalla Brigate Rosse. Andreotti, notoriamente goloso, fece un fioretto: se sarà liberato rinuncerò a mangiare per tutta la vita il gelato. Ma gli occhi di Dio in quei giorni erano volti altrove, ed anche Papa Montini, che di Moro era amico, fu costretto a gridare verso l’Alto di Cieli: “Tu, Dio, non hai esaudito la nostra supplica”. E se non fu ascoltato il Papa, figuriamoci se potesse esserlo colui che sarebbe stato soprannominato, di lì a qualche anno, nientemeno che Belzebù.
Del ruolo di Andreotti in quei 55 giorni in cui la Repubblica Italiana sprofondò nel buio si è detto molto, e molto in negativo. Su di lui, come sul resto della dirigenza democristiana dell’epoca, pesa quanto il rapito scrisse nelle sue lettere dalla prigionia, o quanto Leonardo Sciascia vergò nel suo “L’Affaire Moro”. Fu fatto di tutto per salvare il presidente della Dc, oppure fu lasciato morire per una questione di ragion di Stato? Andreotti fu tra i principali esponenti del partito della fermezza. Osservava che la Democrazia Cristiana non poteva trattare la liberazione di un proprio esponente di primo piano di fronte alle centinaia di uomini dello Stato (magistrati, poliziotti e carabinieri) che erano stati uccisi dei brigatisti. Fu, comunque, l’inizio della leggenda nera andreottiana.
Sotto processo
Una leggenda che si sarebbe nutrita soprattutto di altri due episodi. Il primo l’omicidio di un giornalista, Mino Pecorelli, direttore di una rivista giudicata da molti ambigua. Il secondo la questione della sua presunta collusione con la mafia. Va detto, ed a riguardo citeremo per dovere di terzietà l’Enciclopedia Treccani, che “nel 2004 la Cassazione ha assolto Andreotti dall'accusa di aver colluso con la mafia dopo il 1980 e ha prescritto il reato di associazione per delinquere contestatogli per fatti avvenuti prima di tale data”. Quanto al caso Pecorelli “la Cassazione nel 2003 ha annullato la sentenza della Corte d'Appello, assolvendo Andreotti per non aver commesso il fatto”.
Nel frattempo l’imputato aveva subito un processo per mafia – cui volle assistere udienza per udienza – e le vere e proprie forche caudine di una esposizione televisiva mondiale, con le immagini di lui che usciva dal suo studio il giorno dell’arrivo del primo avviso di garanzia. Se mai c’è stata rappresentazione plastica di cosa sia una caduta in disgrazia, questa fu il video di un Giulio Andreotti dall’aria, per una volta, frastornata che attraversa un portone tra due ali di telecamere e seguito – lui, fino ad allora soprannominato il Divo Giulio – solamente da un paio d’amici, tra cui il portavoce Stefano Andreani. Se il potere rende soli, la sua perdita fa di te una voce che grida nel deserto.
L’eterno ritorno
Restano a questo punto, per definire il quadro, due elementi. Il primo la sua profonda democristianità. Nessuno, neanche i detrattori più accaniti, ha mai osati negargli di avere una fede profonda. Ancor meno quelli che gli hanno voluto negare l’essere stato profondamente democratico cristiano: probabilmente fin dalla nascita, fin da quando cioè Sturzo limava con la dovuta attenzione i 12 punti del suo Appello. Lui era già lì, pronto a calcolare cosa sarebbe venuto poi.
La stessa cosa la fece sul finire della carriera politica, dopo il tracollo della sua Dc e la dispersione dei suoi eredi, secondo una diaspora che piacque a tutti, persino alla Chiesa Cattolica. Prima aderì al Ppi – mai ebbe commercio con Forza Italia, si badi – poi fu il primo a tentare una funambolica operazione di ricostituzione unitaria del fronte cattolico. Si chiamava “Democrazia Europea”, ed andò a finire male perché probabilmente troppo in anticipo sui tempi. Ma mai dire mai, se si tratta di Andreotti: esiste anche il principio dell’eterno ritorno delle tessere (democristiane).
L’ultimo elemento da considerare è quello della continuità. Andreotti fu sette volte presidente del consiglio, sottosegretario a Palazzo Chigi, ministro di tutto il resto. Si sente ne “Gli Onorevoli”, film con Totò firmato da Sergio Corbucci nel 1963, la seguente considerazione: “Non c’è rosa senza spina, non c’è governo senza Giulio”. Insomma, Andreotti fu l’Italia nella sua versione governativa. Meglio: papalina. Vale a dire quell’Italia che, attraverso una gestione capillare del potere, alla fine si regge su di un patto tra governanti e governati che contempla, più che le grandi sfide, le piccole necessità. Le sfide sono lasciate alla politica e al Cardinal Consalvi, le piccole necessità la politica – e Consalvi – le risolvono paternamente, benignamente. Ma senza illusioni, perché se è vero che a pensar male si fa peccato però spesso ci si azzecca, è anche vero che la riconoscenza altro non è se non la speranza di futuri favori. Due delle frasi preferite da Giulio Andreotti.