In piedi di fronte alla tomba di Antonio Gramsci, fondatore del Pci, Pier Paolo Pasolini ammise un giorno “Lo scandalo del contraddirmi; dell’essere con te e contro te”. Dell’essere, insomma, fedele alla sinistra, pur venendo dalla borghesia.
Questione lacerante, che da sempre attanaglia un modo che in Italia ha incarnato, per un secolo, le attese di mutamento e di eguaglianza sociale; ma lo ha fatto partendo da posizioni sostanzialmente borghesi, perché borghesi bisogna essere per avere i soldi per studiare, e affermare magari con Marx che il mondo non va capito, va solo cambiato.
Il problema è che talvolta il mondo cambia te. O almeno ti costringe a cambiare, dopo decenni di certezze rosse come il porfido e immarcescibili come il granito. La sinistra italiana, erede o meno che sia delle Ceneri di Gramsci, è stata così per decenni fissa e rigida, pronta ad affrontare sfide della contemporaneità senza muovere un baffo.
Ma poi all’improvviso ha preso a cambiare tutto: natura, alleanze, credo. Persino il nome, persino quello. Almeno quattro volte in meno di trent’anni, il che fa una volta ogni sette. Per intenderci, con la stessa frequenza con cui in Italia si cambiano i presidenti della Repubblica.
E oggi, complici i risultati ben magri delle elezioni del 4 marzo e i sondaggi poco lusinghieri, pare che voglia mettervi mano una volta ancora, o almeno ci pensa intensamente. Di nuovo, perché tutto sembri oggi come allora destinato ineluttabilmente ad un successo sulla cresta dell’onda del futuro.
Il Muro seppellì il Pci
In principio era il Pci, come lo aveva voluto Gramsci che lo aveva strappato dal costato del Partito Socialista. Ad essere precisi, si chiamava Partito Comunista d’Italia, ma a voler asserire che tra le due denominazioni vi sia discontinuità si farebbe sterile esercizio letterario. La differenza tra l’uno e l’altro sta nella data del 1943, anno dell’inizio della Resistenza e della rinascita dei partiti oppressi dal fascismo. Piena continuità, quindi, con i desideri di un ispiratore che pure nel frattempo era morto in carcere.
Comunista il partito lo restò a lungo: blocco di pietra dura, una vera e propria chiesa (qualcuno direbbe: post-tridentina) che né si piega né si spezza. Ma poi il mondo cambiò, non nel senso auspicato da Marx, e venne l’indimenticabile 1989. Di fronte al crollo del Muro di Berlino ed al tracollo del socialismo reale, un giovane segretario chiamato Achille Occhetto si presentò ad una sezione del Partito della periferia di Bologna. Era un 12 novembre, e lui disse che, come insegnava il compagno segretario generale del Pcus Mikhail Gorbaciov, occorreva “non continuare sulle vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso”.
Unificare le forze del progresso attraverso nuove strade: un concetto che sarebbe stato evocato più di una volta nei calamitosi tempi successivi.
La Rivoluzione Copernicana che restò ferma la palo
Un anno e mezzo più tardi il Pci, al termine di un dibattito che lo aveva dilaniato al di là della percentuale bulgara con cui venne presa la decisione finale, si trasformava nel corpo e nell’anima. Assumeva il nome di Partito Democratico della Sinistra e scolpiva nel suo statuto l’impegno “a costruire nella prassi un rapporto nuovo tra la funzione del mercato e l’esigenza di una direzione consapevole della produzione e dello sviluppo sociale”. Insomma, il faro è quello della dimensione sociale, ma il mercato non è poi così malvagio.
Occhetto, che amava l’iperbole, parlò addirittura di una “Rivoluzione Copernicana”.
Il Pds durò sette anni esatti. Nel 1994 tentò per la prima volta la vittoria alle politiche ma Occhetto, presentatosi in televisione con un taglio di capelli sovietico ed un vestito marrone come una foglia marcia, si trovò davanti la sorpresa di Silvio Berlusconi. Fu così che la coalizione dei Progressisti, primo tentativo di unificare le forze del progresso attraverso nuove strade, subì una sconfitta memorabile. Uno stigma che avrebbe segnato la storia successiva.
La quercia e i suoi cespugli
Eppure il Pds al potere ci andò, anche se per interposta persona. Le forze progressiste vinsero le elezioni del 1996, ma alcuni punti non tornavano. Innanzitutto erano in coalizione (con i cattolici del Ppi e i centristi di Rinnovamento Italiano), il che non era paragonabile agli obiettivi del progetto originale. Seconda cosa: il presidente del Consiglio era anche lui un cattolico, anche se per carità cattolico di una pasta tutta sua. Si chiamava Romano Prodi.
Nel 1998 nacquero allora i Democratici di Sinistra, con l’ambizione di unificare una volta di più tutte le forze della sinistra italiana, che fluttuavano nel mare della politica tra ricordi del passato, diatribe del presente e aspettative per il futuro. Attorno al tronco del Pds, rappresentato nel simbolo da una quercia, vennero a trovarsi così i cespugli (termine usato correntemente in quella stagione politica, a dispetto di un’accezione non del tutto positiva): laburisti, comunisti unitari, cristiano sociali, sinistra repubblicana, riformatori per l’Europa. Persino troppo facile immaginare che ci fosse un po’ di confusione. Prodi dovette lasciare Palazzo Chigi, al suo posto andò Massimo D’Alema (padre dell’operazione Ds) e alle elezioni successive vinse un‘altra volta Silvio Berlusconi.
Tutti insieme, appassionatamente
Un ciclo politico più tardi Prodi era di nuovo lui a Palazzo Chigi, Berlusconi perdeva le elezioni di 20.000 voti e la sinistra più o meno unitaria era costretta a governare in alleanza con un Ppi che nel suo piccolo una fusione l’ha già fatta, con i rutelliani. È nata la Margherita, nel nome dell’unità delle componenti di centro. Perché non chiudere il cerchio? Nasce nel 2007 il Partito Democratico, all’americana nel nome e nei fatti. Nel nome perché il riferimento al partito dell’Asinello è una costante, almeno nei primi mesi; nei fatti perché, stando alla critica più diffusa, di partito in senso tradizionale non si può parlare, quanto piuttosto di una fusione a freddo tra componenti troppo eterogenee per mescolarsi con un processo dettato da Madre Natura.
Ad ogni modo, per la seconda volta Prodi ci rimette lo scranno, e Berlusconi ne approfitta per tornare al governo. Nel frattempo il partito, che finita l’opera di assorbimento delle principali componenti del centrosinistra enuncia ufficialmente la propria vocazione maggioritaria, cambia segretario. Se ne va Walter Veltroni, l’uomo della trasformazione, e prende il suo posto il cattolico Dario Franceschini. Gli succede Pier Luigi Bersani, poi arriva un altro cattolico, Matteo Renzi. Ma questi compie l’errore di legare il suo destino personale e quello del partito al referendum popolare su un pacchetto di riforme costituzionali che viene bocciato sonoramente.
Da quel giorno parte il declino, dell’uno e dell’altro. Fino ad arrivare all’idea di cambiar nome per dare l’idea di aver cambiato tutto. E quello che una volta era il Partito Comunista Italiano, nato grazie a Gramsci e alle sue ceneri, ora rischia di chiamarsi Movimento Democratico Europeo. Chissà, forse una cosa che ricorda Emmanuel Macron potrebbe funzionare. Sempre che nel frattempo anche Macron non abbia perso lo smalto.