AGI - Se la società digitale non ci ha ancora liberato dal lavoro, com’era ambizione, la pandemia tuttavia ci ha almeno svincolato dalla presenza nei suoi luoghi deputati: lo smart working ci ha allontanato dagli uffici e portato a lavorare tra le mura domestiche, come se fossimo diventati improvvisamente tutti liberi professionisti con studio a casa. Come capita più spesso ad avvocati, architetti, commercialisti, qualche ingegnere, grafici, psicologi, scrittori. Con il risultato che in molti, pregustato il vantaggio e la comodità del telelavoro, ora che è terminata l’emergenza pandemica, in ufficio non ci vogliono più ritornare. “Il lavoro a distanza ha portato una tregua”, ha annotato il New York Times in un servizio sull’argomento.
Nel senso che in appena due anni di emergenza pandemica che hanno stravolto le nostre abitudini, l’esperimento dello smart working ha fatto sì che 50 milioni di persone si siano rese disponibili “a cambiare il modo” in cui finora hanno lavorato. Una rivoluzione radicale, che ha portato alla scoperta che “l’ufficio, in altre parole, non è mai stato a taglia unica” bensì una taglia che poteva creare anche molti fastidi verso un certo ambiente connotato da pettegolezzi collettivi, battute, scherzi e certi riti collettivi che “per molti hanno amplificato la sensazione di estraneità”. Uffici come luoghi di grande sofferenza più che di riscatto e benessere.
C’è una teoria, infatti, secondo la quale i luoghi di lavoro non sono altro che “centri di potere” in cui ogni giorno ci s’infila per recitare una propria parte in un collettivo “gioco di ruoli” con tic “di controllo” annessi e connessi. Il capoufficio che non dà tregua e che mette fustiga sempre tutti, le riunioni in cui ci si guarda di soppiatto per vedere come schierarsi e che posizione prendere, e dove si consumano trame, tra alleanze, simpatie, inimicizie, rivalità, invidie, certo anche molti incontri ma pure altrettanti scontri. Con promozioni, carriere, passi in avanti e chi resta invece sempre al palo e non si sa perché mai non riesca a farcela, magari perché vittima di pregiudizi o antipatie. Luoghi dove si va, ma più spesso con un certo patema d’animo.
Calcola il NYTimes che “gli ultimi due anni hanno inaugurato un esperimento non pianificato con un modo diverso di lavorare: circa 50 milioni di americani hanno lasciato i loro uffici. Prima della pandemia, nel 2019, circa il 4% degli occupati negli Stati Uniti lavorava esclusivamente da casa; entro maggio 2020, quella cifra è salita al 43%, secondo Gallup. Naturalmente, ciò significa che la maggioranza della forza lavoro ha continuato a lavorare di persona negli ultimi due anni. Ma tra i colletti bianchi prima del Covid solo il 6% lavorava esclusivamente da casa, mentre a maggio 2020 è salito al 65%” e che in precedenza “l’unica cosa che ha ostacolato accordi di lavoro flessibili è stato il fallimento dell’immaginazione”, di prefigurare altri percorsi e modalità organizzative. Tuttavia, un “fallimento a cui si è rimediato in appena tre settimane a marzo 2020” nel pieno dei contagi da Covid-19. Al telelavoro ci si è adeguati immediatamente.
Così, una volta che finita l’emergenza pandemica s’è riproposto il tema del ritorno in ufficio, s’è anche scoperto che “c'erano una miriade di ragioni per cui le persone preferivano il lavoro da casa, oltre alle preoccupazioni per la sicurezza del Covid” come, per esempio, il fatto di poter godere “della luce del sole”, indossare “i pantaloni della tuta, la qualità del tempo con i bambini o con i gatti, più ore per leggere e correre, lo spazio per nascondere l'angoscia di una giornata o un anno scadente” anche se la giustificazione più argomentata riguardava proprio “la cultura del posto di lavoro”, racchiusa in questa constatazione: "Non ha molto senso tornare in ufficio se stiamo solo tornando al club dei vecchi ragazzi", ha detto Keren Gifford, 37 anni, un'operaia di tecnologia dell'informazione a Pittsburgh, a cui però non è stato ancora richiesto di tornare nel suo ufficio. "Che sollievo non dover andare giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, e non riuscire a fare amicizia e divertirsi”. Cosicché molti, come la signora Gifford, “si sono resi conto di sentirsi come se avessero trascorso la loro carriera in spazi costruiti per qualcun altro”.
Annota il principale quotidiano americano: “Alcune delle aziende che ora tentano di richiamare il proprio personale stanno affrontando un'ondata di resistenza da parte dei lavoratori, incoraggiati a mettere in discussione come sono sempre state le cose, vale a dire, difficili per molte persone”.
I risultati di queste affermazioni sono contenuti i alcuni studi su un plafond di 10 mila impiegati, che affermano che “le donne e le persone di colore avevano maggiori probabilità di vedere il lavoro in remoto come vantaggioso rispetto ai loro colleghi maschi bianchi”.
Negli Stati Uniti, per esempio, “l’86% degli ispanici e l'81% dei lavoratori della conoscenza neri, coloro che svolgono un lavoro non manuale, hanno affermato di preferire il lavoro ibrido o remoto, rispetto al 75% dei lavoratori della conoscenza bianchi. E a livello globale, il 50% delle madri lavoratrici che hanno partecipato agli studi ha riferito di voler lavorare da remoto per la maggior parte o tutto il tempo, rispetto al 43% dei padri. Da maggio 2021 il senso di appartenenza al lavoro è aumentato per il 24% dei lavoratori della conoscenza neri intervistati, rispetto al 5% dei lavoratori della conoscenza bianchi”.
Certo, poi ci sono anche gli aspetti controversi del “lavoro da casa”. Come l’episodio raccontato da Barbara Harris, 49 anni, che lavora nei servizi professionali in Virginia: Mio marito a volte torna a casa e accende la Tv e io gli faccio notare: ma come, hai acceso la Tv nel mio ufficio!?” Oppure, ancora, quello narrato da Dave Marques, 24 anni, studente e scrittore freelance: “Mi sento un po’ depresso quando mi sveglio alle 8 del mattino e vado al mio tavolino col caffè, m siedo davanti al computer e sto su Zoom dalle 9 alle 17 e alla fine chiudo il computer senza aver mai lasciato il mio piccolo studio per tutto il giorno”. A parte i pochi casi controversi, “i manager che premono per un ritorno si trovano ad affrontare quei dipendenti attaccati al loro ritrovato senso di benessere”, chiosa il New York Times, e “i datori di lavoro possono sentire i brontolii della frustrazione”.
La cosa che stupisce è che negli anni Cinquanta i primi studi avanzati di sociologia del lavoro prefiguravano la società telematica e del telelavoro come l’Eden del futuro e della libertà, ma ora che l’Eden l’abbiamo potuto sperimentare per quasi due anni e l’abbiamo a portata di mano, c’è chi vi si frappone e ripropone la vecchia organizzazione del lavoro”. Per quale nostalgia?