“La sostenibilità digitale sembra una novità ma ne stiamo parlando – in termini di città digitale, mondo digitale – già da fine anni ’80, quando era un argomento un po’ tabù a causa del divario digitale che in Italia era all’epoca fortemente accentuato”, osserva De Nardis, “il problema dell’ignoranza digitale non riguardava solo i ceti più deboli e poveri, anche nei ceti elevati l’alfabetizzazione digitale era agli inizi. Il tema non era ancora entrato nel lessico dell’agenda politica, né in quello delle scienze sociali, tra cui l’economia dove, una volta entratovi, sembra essersi impantanato in uno schema che riduce il piano antropologico alle mere questioni economiche”. “Non è quindi un caso che la materia entri nell’agenda politica una volta consumato il trauma della grande crisi economica del 2008/2009, prima della quale il neoliberismo era stato, nella concezione mainstream, l’unica via d’uscita possibile”, prosegue il docente, “questo concentrarsi solo sulla componente economica non faceva che incoraggiare l’attitudine a non occuparsi di altre cose. Come ho già detto in altre occasioni, nella misura in cui la sostenibilità vuole di base salvare il neoliberismo, difficilmente riesce ad arare i campi della digitalizzazione ecologica e ambientale”.
“Ciò premesso”, sottolinea De Nardis, “dal punto di vista della digitalizzazione non so fino a che punto siamo migliorati rispetto a 35-40 anni fa in Italia. L’ultimo rapporto Eurispes ha dato cifre impressionanti sulla povertà, così come il Censis. Sostanzialmente si è allargata la forbice tra ricchi e poveri, con un numero sempre minore di ricchi sempre più ricchi e uno sempre maggiore di poveri sempre più poveri che inizia ad assorbire anche ceti che un tempo si potevano definire media borghesia. Con questi presupposti la sostenibilità non rende possibile un miglioramento a tutto tondo. E, per quanto riguarda la questione della digitalizzazione, non basta possedere un dispositivo che il più delle volte è usa e getta. Tutta questa tecnologizzazione e digitalizzazione rende più sostenibile l’ambiente in cui questa parte del mondo vive ma queste nostre scelte hanno un impatto altrove. Pensiamo allo sfruttamento del lavoro minorile. Il cobalto, componente fondamentale dei nostri smartphone, viene estratto da bambini nella Repubblica Democratica del Congo in miniere e sono proprio le sue caratteristiche estrattive a richiedere l’impiego di manodopera minorile. Si può parlare di sostenibilità quando la si paga al costo di uno sterminio infantile? Se vogliamo fare vera sostenibilità bisogna mettere in discussione il modello produttivo, a partire da una radicale redistribuzione delle risorse”.
In questo contesto, quale può essere una definizione di sostenibilità digitale?
“La sostenibilità digitale è il modo migliore di razionalizzare un sistema di produzione smussandone i lati più perversi e negativi, non solo in termini economici ma anche in termini ambientali e sociali. È un modello che incoraggia l’attitudine alla formazione di una cultura digitale che venga sempre più utilizzata come mezzo per raggiungere dei fini ma mai come fine in sé, al di là degli abbagli di cui sono vittima le giovani e giovanissime generazione. La formazione, dal punto di vista della pedagogia di base, è quindi fondamentale in tal senso”.
Ritiene che ci sia una consapevolezza sufficientemente diffusa della correlazione tra sostenibilità e digitalizzazione, non solo nel quadro istituzionale e imprenditoriale ma anche nella società civile più in generale?
“Scusi la franchezza, dovuta al pessimismo della ragione, ma purtroppo quando una locuzione diventa slogan rischia di diventare moda e la moda rischia di sclerotizzare certi comportamenti anche in maniera acritica. C’è chi se ne rende conto ma fare un salto radicale risulta sempre difficile e soprattutto c’è il rischio che tutto ciò diventi una sorta di etichetta da mettersi come riconoscimento. Un esempio calzante è il cosiddetto greenwashing”.
Quali sarebbero i passi necessari per promuovere una cultura orientata alla sostenibilità digitale, sia nella politica che nelle aziende? E che ruolo potrebbe avere il mondo accademico in questo processo?
“La scuola e l’accademia devono avere senz’altro un ruolo nell’educazione digitale degli adulti, il che significa non solo fornire le basi tecniche ma anche la consapevolezza delle nuove forme di cittadinanza. È fondamentale la partecipazione a tutti i livelli – consultivo, decisionale e di controllo – in quanto la scarsità di partecipazione crea deficit democratico. Democrazia non significa solo andare alle urne ogni cinque anni ma attivare tutti i canali partecipativi. Da questo punto di vista, il crollo del sistema dei partiti della Prima Repubblica è stato un male assoluto. Non ci sono più corpi intermedi che possano galvanizzare la partecipazione e recepire domande e interessi. Se la politica si riduce ad amministrazione diventa qualcosa di noioso e arido che viene naturale demandare ad altri. È un pericoloso deficit di democrazia che stiamo vivendo in tutto il mondo occidentale, una caduta nel populismo inteso come erosione della mediazione tra società civile e società politica, con tutti i guasti che ciò comporta. Con la disaffezione dalla politica si rischia di essere alfabetizzati al massimo dal punto di vista tecnologico ma di diventare sudditi”.
Lei aveva sottolineato come i temi della sostenibilità ambientale avessero comportato l’elaborazione di nuove categorie sociologiche. Vale anche per la sostenibilità digitale?
“Ne cito tre. L’inclusione, che è entrata nel lessico a fronte dei flussi migratori: la digitalizzazione dovrebbe includere. La resilienza, che si è diffusa a partire dal terremoto dell’Aquila. E la stessa categoria di sostenibilità, della quale non parlavamo, non esisteva, si dava per scontata”.
Ci sono invece categorie superate?
“Ne menziono altre tre che si tende a depennare dal lessico delle scienze sociali: la categoria della funzione sociale, la coppia concettuale status/ruolo, perché si parla sempre più di macrostrutture, e infine la categoria del conflitto sociale. Oggi si parla di rabbia sociale, che può essere rabbia giovanile o legata alle guerre tra poveri innescate dalla gentrificazione che in una città come Roma ha spazzato le nuove povertà fuori dai confini delle nuove mura costituite dal Grande Raccordo Anulare senza dare il supporto necessario in termini di servizi e infrastrutture. Se viene a cadere l’idea del conflitto rimane solo la protesta, la rabbia, un bagaglio di violenza che troppo spesso fa dimenticare quella che è la vita civica quotidiana. Bisogna avere una nuova immaginazione sociologica e inventare nuove categorie anche per dare conto e spiegare queste tragedie del nuovo millennio, dall’aumento degli incidenti d’auto alle morti sul lavoro”.