AGI - Intelligenza artificiale: quanta confusione possono fare due parole. Prima di tutto perché di intelligente non c'è nulla. E poi perché l'accostamento trae in inganno: sembra il frutto di un matrimonio, quello tra ingegneria e biologia, unite nel tentativi di ricreare la mente umana. “In realtà è un divorzio”, afferma Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’informazione a Oxford e presidente dell’International Scientific Board di Ifab. Niente drammi: un divorzio può essere una tappa per creare un matrimonio tra “blu e verde”. Cioè tra digitale e tutela dell'ambiente.
Professore, perché l'intelligenza artificiale è un divorzio?
Perché creare artefatti e provare a replicare l'intelligenza umana sono in realtà divergenti. Con l'intelligenza artificiale divorziano la capacità di agire con successo e la necessità di essere intelligente per farlo. Faccio un esempio...
Prego...
Il robot che taglia l'erba, muovendosi nel giardino in totale autonomia, ha intelligenza zero, ma fa una cosa molto bene. Se dovessi farla io, sarei meno efficiente e dovrei applicare la mia intelligenza per evitare di distruggere il cespuglio di rose. È un miracolo: non è mai successo prima di avere grande successo in qualcosa senza applicare l'intelligenza. Di fatto, oggi produciamo straordinarie lavatrici, capaci però di fare cose sempre più complesse.
Come si fa a far funzionare questo divorzio?
Il divorzio funziona quando è possibile “scollare” processo e intelligenza. Il successo dipende quindi da quanto riesco a trasformare l'ambiente in modo che sia accogliente per l'AI. Guardiamo le auto a guida autonoma: riescono già ad andare da A verso B, ma per funzionare devono cambiare le strade. Il semaforo è fatto per i nostri occhi, mentre all'intelligenza artificiale serve un trasmettitore radio. Grazie a questo processo di trasformazione, il divorzio può funzionare: va ripensato il problema in modo che sia risolvibile da un'intelligenza artificiale.
Plasmare l'ambiente per l'intelligenza artificiale apre questioni etiche e potenziali rischi...
Sì, certo. Capacità di agire e intelligenza hanno sempre viaggiato insieme. E nel gap creato da questo scollamento inedito nascono i problemi. Il primo riguarda il valore delle persone e la nostra autonomia. È pericoloso, ad esempio, che nella gig economy ci siano uomini gestiti da software. È l'inizio di una società distopica in cui non vogliamo vivere. Ma la nostra autonomia è in gioco anche quando guardiamo un film in streaming: se hai guardato A, la piattaforma ti suggerisce di vedere B e C, condizionando le tue scelte. Poi c'è anche un altro problema.
Quale?
Sono i bias [“pregiudizi” che un algoritmo tende a rafforzare, ndr]. Se un software prende decisioni ingiuste, non bisogna prendersela con l'intelligenza artificiale ma con i dati. L'intelligenza artificiale non ha capacità di correggere i bias. Se un'azienda ha sempre assunto uomini, i manager possono capire che è un comportamento scorretto e decidere di assumere anche donne. Ma se si incaricasse un'intelligenza artificiale di selezionare i candidati sulla base dei dati, continuerà a indicare uomini.
È per questo che afferma che la vera sfida non è l'innovazione digitale ma la governance?
A fare la differenza è chi ha le mani sul volante, non chi ha il piede sull'acceleratore. La legislazione europea, ad esempio, dice che deve esserci una supervisione umana costante.
A proposito di legislazione europea, cosa pensa del regolamento che dovrebbe normare i servizi d'intelligenza artificiale, il cosiddetto “AI Act”?
L'Ue sta facendo un ottimo lavoro. Sono ottimista sulla direzione e devo essere paziente sui tempi. Il filosofo può anche vedere le cose prima, ma deve saper aspettare. Per il Gdpr, ad esempio, ci sono voluti sei anni. Si tratta di un percorso delicato, da maratoneta: non si può comparare con i 100 metri. Quando, entro un paio d'anni, avremo l'AI Act, l'Ue avrà un ruolo di leadership.
Il fatto che si tratti di un regolamento comunitario e non globale rischia di indebolirlo?
Credo che sarà molto efficace anche se non globale. Si chiama “effetto Bruxelles”: l'Ue ha influenza su altri Paesi perché la legislazione alza gli standard e le richieste di compliance. Le grandi aziende si adeguano e non solo per il mercato Ue, perché non è conveniente avere due protocolli diversi. Si genera così un impatto di fatto ancora prima che giuridico. Lo abbiamo visto con il Gdpr: l'Ue si stacca, il resto del gruppo si adegua per inerzia. Quella europea diventa così una “leadership by example”. Mi aspetto che, entro cinque anni, la legislazione Ue possa avere un'influenza enorme, non solo in Europa.
L'impatto del digitale va oltre la singola tecnologia e i quadri normativi. In uno dei suoi lavori lei parla di “quarta rivoluzione”.
Con Turing, l'informatica e l'intelligenza artificiale, l'uomo è stato spiazzato per la quarta volta. Copernico ci ha spostati dal centro dell'universo, Darwin ci ha detto che non siamo al centro del regno animale e Freud che non siamo al centro della nostra mente. Oggi avvertiamo la pressione perché non siamo più neanche al centro dell'infosfera, lo spazio dei dati, delle informazioni e della conoscenza. Dovremmo allora chiederci “perché l'umanità è speciale?” e ripensare i fondamenti dell'antropologia filosofica, basata sull'eccezionalismo. Dovremmo sviluppare una filosofia in cui non siamo al centro di niente. La vera capacità umana è essere “al servizio di”.
Ad esempio al servizio dell'ambiente: se l'intelligenza artificiale è un divorzio, nel suo ultimo libro propone un matrimonio, tra “il verde e il blu”...
Da un lato abbiamo l'AI, una forza straordinaria, flessibile, con una grande capacità di risolvere problemi; dall'altra abbiamo tanti problemi sociali e ambientali da risolvere. Mettiamo insieme l'una e gli altri, al servizio della sostenibilità e di una società più equa, che sappia non solo generare ricchezza ma anche distribuirla. Con il blu delle tecnologie digitali e il verde dell'ambiente possiamo fare di più con meno, in modo diverso e meglio.
Quali sono o saranno le applicazioni più prossime di questo matrimonio?
Già adesso, grazie a modellizzazione e analisi dei dati, si possono conoscere meglio funzionamento dei trasporti pubblici, consumo energetico di una città, impatto di infrastrutture e nuovi edifici. Sapere di più consente di disegnare molto meglio quello che stai progettando. Un esempio è quello della “twin c”iy, una replica digitale di città che permette di studiare il traffico per vedere come cambia in base ad alcune variabili.
Il legame tra intelligenza artificiale e ambiente è uno degli ambiti su cui punta l'International Foundation Big Data and Artificial Intelligence for Human Development (Ifab)...
Nessuno, da solo, ha le chiavi di questi problemi. Servono la collaborazione di pubblico e privato, le capacità manageriali, le risorse tecnologiche, le policy, i dati e il consenso dei cittadini. Oggi queste competenze si trovano in luoghi diversi. L'Ifab ha compreso l'importanza di aggregarli, creando l'hub Big Data Technopole. È una sfida difficile, ma che vale la pena cogliere: è il modo di sfruttare il divorzio per farne un matrimonio.