Il droide di Google è pronto a rifarsi i connotati, dopo che una multa per abuso di posizione dominante ha imposto al colosso di rimuovere l’obbligo di utilizzare il browser Chrome e il motore di ricerca dell’azienda da parte dei produttori di smartphone.
In una lettera aperta, pubblicata il 18 luglio, l’amministratore delegato dell’azienda Sundar Pichai suggerisce che in futuro il sistema operativo per smartphone Android potrebbe non essere più gratuito e aperto, determinando una rivoluzione nel mondo degli smartphone.
Cosa vuol dire open source
Ma cosa vuol dire che Android è un sistema operativo aperto? In termini generali, è open source un software il cui codice sorgente (il codice che lo costituisce e sulla base del quale un dispositivo lo fa funzionare) è liberamente accessibile e non protetto da copyright, e ne è consentita la modifica ed eventuale redistribuzione.
Il codice di Android è effettivamente liberamente scaricabile e come precisa la stessa Google, “il repository Android Open Source Project (Aosp) offre le informazioni e il codice sorgente necessari per creare varianti personalizzate dello stack Android, collegare dispositivi e accessori alla piattaforma Android e garantire che i dispositivi soddisfino i requisiti di compatibilità”.
Questo vuol dire che chiunque può prendere la versione base di Android e realizzarne una propria personalizzata. È questo il caso del sistema operativo indipendente LineageOs o di sistemi che girano su dispositivi Amazon come il Kindle Fire e il Fire Phone. Ambienti dai quali Google non guadagna e che beneficiano del codice che l’azienda ha liberamente messo a disposizione.
Ma Aosp è una versione estremamente basilare di Android, che non include importanti funzionalità fornite invece con la versione Google Mobile Services (Gms). È utile immaginare Gms come qualcosa che completa Android, aggiungendo le tipiche funzioni che un utente si aspetta da uno smartphone e che sono riconosciute come “Android”. Google Play Store, Google Maps, Gmail, Chrome e non solo. Anche, e soprattutto, servizi di sicurezza, possibilità di effettuare acquisti online, servizi di geolocalizzazione. Tutto questo passa da Gms, ma richiede che i produttori di smartphone che vogliono offrire questo tipo di funzioni siano certificati da Google e rinuncino a personalizzare il sistema operativo.
E così si arriva al closed source. Perché se è vero che tutto ciò che riguarda Android (Aosp) è aperto, è vero anche che le funzionalità Gms sono invece chiuse. Per dotare i propri dispositivi di un sistema Android completo, che comprende quindi le funzionalità Gms, Google non chiede alcun pagamento in cambio.
E come sempre quando qualcosa è gratis, vuol dire che “la merce è l’utente”. Infatti il modello di business di Google si risolve nel raccogliere dati da tutti i dispositivi dotati della versione Google di Android, per poi utilizzarli per indirizzare i propri servizi di advertising. Lasciando ai produttori la sola alternativa di svilupparsi da soli un market delle app indipendente (che deve a sua volta raccogliere app sviluppate da altri programmatori) o rinunciare a poter offrire un ambiente software completo. Obiettivo a cui si è avvicinata più di tutti Amazon con la sua versione di Android per Kindle.
Ma quindi cosa chiede l’Unione Europea?
Per la commissaria Margrethe Vetsgager, Google è responsabile di tre comportamenti ritenuti illeciti, che la società è tenuta a interrompere entro novanta giorni:
- L’aver forzato le società che vogliono usare Android con il Google Play Store preinstallato ad avere anche il browser Chrome e la app per le ricerche Google Search
- L’aver offerto agevolazioni economiche illegali ai produttori di smartphone che installano esclusivamente Google Search
- L’aver impedito ai produttori che già distribuiscono sui propri dispositivi Android Gms di mettere in commercio anche smartphone che utilizzano versioni basate su Android Aosp
Circostanze che hanno “cementificato la posizione di predominio del proprio motore di ricerca - secondo la commissaria danese -, impedendo ai rivali la possibilità di innovare e competere sul merito”. E la misura adottata (a partire dalla più alta multa mai comminata dall’Unione Europea, che ammonta a 4,3 miliardi di euro) è estremamente severa. È previsto infatti che, se Alphabet (la società che controlla Google) non dovesse sospendere le condotte illecite entro il tempo stabilito, dovrà pagare una multa equivalente al cinque per cento del proprio fatturato annuale per ogni giorno di ritardo.
“Sviluppare Android comporta dei costi, e Google ha investito miliardi di dollari nell’ultimo decennio per fare di Android quello che è oggi”, ha replicato Pichai. “Finora il modello di business di Android ha fatto sì che non fosse necessario far pagare i produttori di telefoni per usare la nostra tecnologia, o farli dipendere da un modello di distribuzione strettamente controllato”. E continua: “Ma siamo preoccupati che la decisione di oggi possa sconvolgere l'attento equilibrio che abbiamo creato con Android e possa inviare un segnale preoccupante a favore dei sistemi proprietari rispetto alle piattaforme aperte”.
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Le reazioni
A differenza di quanto scritto da Pichai, le piattaforme aperte (o almeno più aperte di Google) sembrano gioire alla notizia della decisione di Bruxelles. Kostas Rossoglou, a capo delle relazioni pubbliche della piattaforma Yelp ha commentato: “Concorrenti, produttori di telefoni, gruppi di consumo e piccole e grandi imprese accolgono positivamente la decisione dell’UE su Android”. Mentre il motore di ricerca indipendente DuckDuckGo, caratterizzato per non tracciare i propri utenti, ha twittato: “Accogliamo con favore la decisione dell'Ue di reprimere il comportamento anticoncorrenziale di Google. Ne abbiamo sentito gli effetti in prima persona per molti anni e ci ha portato direttamente a detenere meno quote di mercato su Android vs iOS e in generale su desktop o mobile”.
A sostegno di Google si è invece schierato il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, anche se notoriamente non gode di ottimi rapporti con la Silicon Valley.
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Ma la partita deve ancora essere giocata ai recuperi, con l’annuncio di Alphabet di voler presentare ricorso. E a rassicurare Google ci pensa anche la borsa, dove Alphabet sta godendo (per ora) di una buona tenuta nonostante la punizione decisa dall’Antitrust europea.