Il primo sito ad aver intuito quello che stava per succedere con buona probabilità è stato il magazine di informazione tecnologica Cnet.com, che nelle prime ore della mattinata di martedì 20 marzo ha rilanciato (su Twitter) un suo vecchio articolo, datato gennaio 2017: How to delete your Facebook account, once and far all (Come cancellare il tuo account Facebook una volta per tutte), dove elenca una serie di cose da fare per uscire dalla schiavitù da social network, spiegando anche cosa si potrebbe fare con tutto il tempo speso sul social, tra commenti e discussioni.
Fatto sta che in poche ore #DeleteFacebook è diventato uno degli argomenti più discussi sui social. Complice il caso Cambridge Analytica e la bufera scatenata su Zuckerberg accusato in queste ore di non aver fatto nulla per impedirlo, su Twitter la discussione ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, lambendo nella tarda serata anche l’Italia.
C’è una voce che però più di tutti ha destato sorpresa. Quella di Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp, il servizio di messaggistica acquisito per 19 miliardi di dollari proprio da Facebook nel 2014. Il suo tweet stato tanto breve quando rumoroso: “È ora, #deletefacebook” ha scritto: finora 4.400 condivisioni, 9.000 ‘mi piace’, centinaia di commenti in larga parte positivi.
Brian Acton, classe 1972, a settembre ha lasciato la guida di WhatsApp all'altro co-founder, Jan Koum, e secondo Forbes ha un patrimonio personale netto di 6,5 miliardi.
Ma non è l’unico. In queste ore il clima di diffidenza nei confronti dei giganti della Silicon Valley sta avvolgendo anche le testate di settore più accreditate. Oltre a Cnet, su TechCrunch , considerata la bibbia della digital economy, Jon Biggs, commentatore storico del sito, ha scritto a chiare lettere: “Facebook ci sta usando. Sta di proposito prendendo le nostre informazioni. Sta creando delle echo chamber (camera dell’eco in italiano, una metafora per indicare quelle situazioni in cui le informazioni, le idee e le credenze vengono amplificate e rafforzate in un sistema chiuso, che aumenta i nostri pregiudizi, ndr) nel nome della connessione. Fa emergere le divisioni e distrugge le vere ragioni che ci hanno portati all’uso dei social media: (distrugge) le relazioni umane. È un cancro”.
Discorso analogo sul Financial Times, dove addirittura si chiede in un commento di cancellarsi in massa da Facebook per tutelare le libertà democratiche e i diritti civili. Una frase che sarebbe sembrata addirittura fuori luogo su un quotidiano così autorevole fino a qualche mese fa.
Non è finita. Uno dei profili più importanti della scena digitale americana, Jason Calacanis, imprenditore e investitore tra i più noti della scena tecnologia americana (ha fondato Engadget.com e Netscape.com, vedute ad Aol, oltre ad essere stato manager di uno dei fondi di venture capital più potenti del mondo, Sequoia), ha pubblicato in queste ore quello che definisce "Zuckerberg con le sue stesse parole".
Si tratta di una conversazione del 2010, pubblicata da Business Insider, quando Zuckerberg, studente ad Harvard, scrive ad un collega: "Se hai bisogno di informazioni su qualcuno ad Harvard basta che me lo chiedi. Ho oltre 4mila indirizzi email, foto, indirizzi. Le persone li hanno inseriti, non so perché. Loro si fidano di me. Che stupidi".
Cosa sta succedendo?
L’impressione è che il caso di Cambridge Analytica abbia agito solo come agente scatenante di un’idea che si era già diffusa, tra utenti, commentatori e esperti dei temi digitali. Sarebbe ingenuo pensare che solo oggi ci si accorga che tutto il business di Facebook (ma anche di Twitter e di Google, e per molti aspetti quello di Amazon) sia basato sull’uso dei dati personali degli utenti.
Ma il monopolio della vita digitale di 2,3 miliardi di utenti nel mondo (questi i numeri di Facebook) comincia a preoccupare. È come se il potere di queste società sia diventato consapevolezza collettiva, e spaventa: se il costo di un servizio è gratuito, il costo di quel servizio sono i tuoi dati. La tua privacy. Le tue opinioni. E il tuo voto, come nel caso delle campagne elettorali di Cambridge Analytica.
È il primo effetto di massa di quello che viene chiamato techlash (ne abbiamo parlato qui). Difficile capire se, quanto durerà e a cosa porterà. Ma la discussione sui dati e la privacy degli utenti sembra aver raggiunto per la prima volta la massa critica, la coscienza degli utenti, uscendo dalle pagine dei quotidiani e da quelle dei libri dei critici del dominio dei signori dei dati.