Durante il referendum lombardo sull’autonomia ci sono state più polemiche per il metodo utilizzato per la consultazione, il voto elettronico, che non per il tema sottoposto agli elettori. La ragione è che il voto elettronico annovera una lunga storia di insuccessi, tanto che in alcuni Paesi è stato dichiarato incostituzionale.
È il caso della Germania, la cui Suprema Corte ha bandito il metodo in quanto “l’incredibile raggio degli effetti di possibili errori nelle macchine per il voto o di frodi compiute deliberatamente rende necessarie delle precauzioni finalizzate a salvaguardare il principio della natura pubblica delle elezioni”. Principio che le macchine elettroniche non sono in grado di salvaguardare oltre ogni ragionevole dubbio.
Come nel caso dell’Estonia, paese che dispone di un sistema di voto online fin dal 2005 e che da allora lo ha utilizzato otto volte. Con poco più di novemila elettori online nella sua prima sperimentazione (è possibile scegliere anche il voto al seggio), alle politiche del 2015 ha raccolto le preferenze di 176.329.
Ma nel 2014 un gruppo di ricercatori dell’Università del Michigan e del Open Rights Group, ha pubblicato una relazione commissionata dalla fondazione nazionale statunitense delle scienze e a cui ha contribuito il consiglio comunale di Tallinn, nella quale si descrivono gravi vulnerabilità nel sistema, che possono aver esposto la piattaforma di voto ai capricci di hacker intenzionati a sovvertire i risultati delle elezioni.
“Ciò che abbiamo scoperto ci preoccupa. C'erano sconvolgenti lacune nella sicurezza procedurale e operativa, e l'architettura del sistema lascia la piattaforma aperta a cyberattacchi provenienti da potenze straniere, come la Russia. Questi attacchi potrebbero alterare i voti o mettere in discussione i risultati elettorali. Possiamo confermare che questi attacchi sono reali minacce. Raccomandiamo urgentemente l'Estonia ad interrompere l'uso del sistema”.
Una delle più pressanti critiche al voto elettronico riguarda la natura stessa dei software usati: segreti, di proprietà di multinazionali e incompatibili con delle verifiche esterne. Le macchine per il voto sono dei computer, e i recenti fatti di cronaca evidenziano quanto sia difficile proteggerli. Soprattutto se a svilupparli sono piccoli gruppi di ingegneri. Neanche le migliaia di esperti dietro a un sistema operativo come Windows o le decine di migliaia dietro Linux sono in grado di rendere un sistema invulnerabile.
L’anno scorso in occasione del meeting statunitense sulla sicurezza informatica DefCon, degli hacker sono riusciti a prendere il controllo di una macchina per il voto elettronico in soli due minuti. Il dispositivo, modello ‘WinVote’, aveva un difetto all’antenna Wi-Fi che ha consentito agli hacker di prenderne il controllo. La password per accedere al sistema era “ABCDE”. La società che produceva il dispositivo, la Advanced Voting Solutions, è stata chiusa nel 2007, ma le sue macchine sono state usate anche nelle elezioni in Virginia del 2015.
Un caso positivo di voto elettronico però esiste, e coinvolge la Nasa. Nel novembre del 2007 David Wolf, astronauta, è stato il primo uomo a votare dallo spazio, come racconta l’Atlantic. Per farlo ha dovuto semplicemente trasmettere la scheda elettorale, criptata e in formato Pdf, dalla Stazione Spaziale russa Mir al suo seggio, dove a uno scrutatore era stata precedentemente assegnata la password per accedere al file. Ma anche qui, dalle stelle all’analogico, lo scrutatore legge il voto espresso e lo ricopia a mano su una scheda che viene inserita nell’urna.