All’interno del governo Conte è in corso uno scontro, con il ministro dell’Economia Giovanni Tria che chiede di tutelare l’«indipendenza» di Banca d’Italia da un lato, e i due vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio che chiedono l’azzeramento dei vertici dell’istituto di Palazzo Koch dall’altro.
In questo contesto è tornata alla ribalta una proposta di legge del parlamentare della Lega Claudio Borghi che espliciti il fatto che le riserve auree sono detenute e gestite da Banca d’Italia, ma sono di proprietà dello Stato.
Dato che Banca d’Italia è un ente di diritto pubblico si può considerare superfluo specificare che le riserve auree - detenute e gestite in piena indipendenza - siano di fatto dello Stato.
Circolano allora voci che il governo, sottolineando che l’oro appartiene allo Stato e non a Banca d’Italia, voglia preparare il terreno per utilizzare nel prossimo futuro le riserve auree per la spesa, in particolare per sterilizzare l’aumento dell’Iva. Ma si potrebbe fare? E avrebbe senso? Cerchiamo di capirlo insieme.
Il governo potrebbe usare le riserve auree?
Nel quadro normativo attuale sembra difficile un’azione diretta dell’esecutivo per imporre alla Banca d’Italia di vendere le proprie riserve auree e mettere il ricavato a disposizione del governo. Questo sarebbe vero anche se fosse approvata la proposta di legge che chiarisce in modo inequivocabile che le riserve auree sono di proprietà dello Stato.
La piena indipendenza che caratterizza l’operato di Banca d’Italia, infatti, impedisce al governo di dare ordini all’istituto di Palazzo Koch. Se Banca d’Italia decidesse di vendere o meno le proprie riserve auree, lo dovrebbe fare in autonomia rispetto al governo.
Lo dice chiaramente l’articolo 1 comma 2 dello Statuto di Banca d’Italia, secondo cui «nell’esercizio delle proprie funzioni e nella gestione delle proprie finanze, la Banca d’Italia e i componenti dei suoi organi operano con autonomia e indipendenza nel rispetto del principio di trasparenza, e non possono sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati».
Avrebbe senso usarle per sterilizzare l’aumento dell’Iva?
Ma anche ipotizzando che fosse possibile varare norme che consentissero al governo di imporre a Banca d’Italia di vendere le proprie riserve auree, le terze per consistenza al mondo, avrebbe senso farlo per sterilizzare le clausole di salvaguardia (di cui ci eravamo occupati qui sull’Iva?
Ci sono motivi di dubitarne.
La vendita delle 2.452 tonnellate di oro frutterebbe 91 miliardi di euro abbondanti.
In rapporto al nostro debito pubblico (2.350 miliardi di euro circa) è una quantità inferiore al 4%. Immettere ingenti quantità di oro sul mercato farebbe poi diminuire con ogni probabilità il suo valore, riducendo quindi il ricavo dei 91 miliardi citati.
Ma al di là di questo, la vendita delle riserve auree genererebbe in ogni caso un gettito una tantum. Cioè, una volta venduto quell’oro un anno, le riserve auree sarebbero esaurite e non si potrebbe replicare l’operazione l’anno successivo.
Le clausole di salvaguardia che prevedono un aumento dell’Iva sono legate al saldo tra entrate e uscite dello Stato, che ogni anno deve rispettare determinati parametri. Se è quindi possibile intervenire sul bilancio un anno – o più anni, scadenzando le vendite – con il ricavato della vendita delle riserve auree, terminata quell’iniezione di liquidità una tantum il problema si ripresenterebbe intatto una volta esaurito l’oro dello Stato.
Per fare un esempio, sarebbe come vendere i gioielli di famiglia per pagare una rata mensile di un finanziamento annuale.
Infine, uno Stato che decida di vendere le riserve auree darebbe probabilmente un segnale negativo ai mercati e ai partner economici. In particolare modo per un Paese con un elevato debito pubblico, come l’Italia, che dipende dalla fiducia degli investitori esteri per reperire sul mercato le risorse di cui ha bisogno anno dopo anno.
I precedenti
C’è almeno un precedente per la proposta di utilizzare le riserve auree per fini particolari, anche se i dettagli della proposta erano molto differenti. Nell’agosto 2011 Romano Prodi, in una lettera inviata al Sole 24 ore, aveva proposto, insieme all’economista Alberto Quadrio Curzio, di usare le riserve auree dei Paesi Ue per creare un Fondo finanziario europeo che potesse emettere titoli del debito pubblico europeo (“EuroUnionBond”). In questo modo si sarebbero potuti finanziare investimenti e contrastare la speculazione.
La proposta tuttavia non ebbe seguito.
Conclusione
Il piano di vendere le riserve auree per far fronte a esigenze di finanza pubblica ha due aspetti che lo rendono molto difficile da realizzare. Per prima cosa, non è possibile per il governo incidere direttamente sulle scelte di Banca d’Italia, che è un’istituzione indipendente; a meno di non modificare i rapporti legali tra i due, dunque, non c’è oggi modo di costringere Palazzo Koch a vendere le riserve auree per finanziare la spesa pubblica.
Se anche fosse possibile sarebbe comunque un’operazione inutile, se collegata al finanziamento di spese ricorrenti. Il gettito infatti sarebbe eccezionale e si esaurirebbe nel momento in cui fosse venduto l’ultimo grammo d’oro.
Oltre a queste due osservazioni fondamentali, ce ne sono altre da tenere presente: in primo luogo l’oro, se venduto in grandi quantità in poco tempo, si deprezza rapidamente. In secondo luogo, uno Stato che si vende le riserve auree manderebbe un segnale molto negativo ai mercati e agli investitori internazionali, da cui l’Italia dipende in misura rilevante a causa del suo elevato debito pubblico.
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