Matteo Salvini, ospite di Porta a Porta l’11 settembre, ha parlato tra le altre cose di pensioni e dell’esigenza di superare la cosiddetta “riforma Fornero”. Il ministro dell’Interno è tornato a promettere “quota 100” con “al massimo 62 anni” di età.
Superare la riforma Fornero servirebbe, secondo il segretario della Lega che cita richieste degli imprenditori in tal senso, “anche per poter assumere giovani”.
Ma esiste davvero un legame tra l’abbassamento dell’età pensionabile e l’aumento dell’occupazione giovanile? Secondo diversi esperti no, non esiste. Se può esserci qualche effetto nel breve periodo, nel medio e lungo periodo si rischia anzi un effetto boomerang.
Vediamo meglio la situazione.
Le critiche alla “staffetta generazionale” proposta dal governo Letta
Il tema del rapporto tra pensionamenti e assunzioni di giovani è ciclico. Nel dibattito pubblico, era tornato con forza ad esempio quando il governo Letta nel 2013 aveva proposto la “staffetta generazionale”.
I lavoratori anziani, cioè, avrebbero potuto optare per passare da un regime di impiego a tempo pieno a uno a tempo parziale, guadagnando meno ma avendo più tempo libero. Le aziende, pagando meno salari comparativamente – considerati gli stipendi alti a causa dell’anzianità -, avrebbero quindi potuto assumere più giovani per riempire i vuoti lasciati.
Commentando sul sito LaVoce.info la proposta del governo Letta, gli economisti Tito Boeri (all’epoca non ancora presidente dell’Inps) e Vincenzo Galasso avevano scritto a maggio 2013 che “la staffetta generazionale lascia perplessi”.
In primo luogo perché ricette del genere erano già state applicate negli anni ’70 e ’80, “quando in tutta Europa alle imprese era consentito di mandare in pensione anticipata i lavoratori “anziani” (spesso anche solo cinquantenni) per far posto ai lavoratori giovani”. E non hanno funzionato: “Queste politiche si sono rivelate disastrose”, scrivono ancora gli economisti su Lavoce.info: “la disoccupazione è aumentata sia tra i giovani che tra le persone anziane, a causa del forte incremento dei contributi previdenziali richiesto e del conseguente aumento del costo del lavoro”.
In un sistema pensionistico come quello italiano, le pensioni devono infatti essere pagate anno su anno in primo luogo dai contributi versati dai lavoratori attivi. Se aumenta il peso economico delle pensioni sul sistema, a causa di un aumento dei pensionamenti, bisogna drenare più risorse dal lavoro o dalla fiscalità generale per poterlo mantenere in equilibrio.
In secondo luogo, per Boeri e Galasso “nei dati la sostituibilità tra lavoratori giovani e anziani proprio non esiste”. A riprova di questa tesi, gli autori mostravano un grafico che confrontava il tasso di attività dei lavoratori nella fascia di età 55-64 anni e la disoccupazione nella fascia 18-24 anni negli allora 27 Paesi dell’Ue.
Se un nesso esistesse, dovremmo vedere, all’aumentare del tasso di attività dei lavoratori anziani, un aumento anche della disoccupazione giovanile. E non è così.
Un ulteriore approfondimento della questione è stato fatto, sempre nel 2013, dall’economista Andrea Moro su noisefromAmerika. Moro aveva allora preso in considerazione non la disoccupazione giovanile, che “è per sua natura una variabile ciclica, fortemente influenzata dall'andamento congiunturale dell'economia”, ma il tasso di occupazione nella fascia di età 15-24 anni, e lo ha confrontato di nuovo con il tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni in 35 Paesi europei.
Il risultato conferma quanto già sostenuto da Boeri e Galasso. “In media (senza pretendere di stabilire nessun rapporto di causalità) per ogni punto percentuale di aumento di occupazione adulta, l’occupazione giovanile è maggiore di ben 0,74 punti”.
Se invece fosse vero che a meno occupati tra i lavoratori anziani corrispondono più occupati tra i lavoratori giovani, “il rapporto dovrebbe essere negativo e vicino a -1”.
L’economista Roberto Perotti, in un intervento del giugno 2013 ancora su LaVoce.info, si mostra critico nei confronti delle argomentazioni di Boeri, Galasso e Moro. Ma, al di là dei rilievi sulla metodologia usata dagli altri esperti, Perotti era d’accordo sul punto di fondo: “ridurre l’età pensionabile favorirebbe l’occupazione dei giovani nel breve periodo, ma aumenterebbe le tasse e i contributi che ogni occupato (inclusi i giovani) dovrebbero pagare (…). Ciò aumenterebbe il costo del lavoro, e dopo poco la disoccupazione aumenterebbe nuovamente”.
Le critiche più recenti
Il Sole 24 Ore ha poi raccolto già il 5 settembre 2018 una serie di opinioni qualificate sul tema dell’abbassamento dell’età pensionabile e di quota 100.
Per Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento Lavoro e affari sociali dell’Ocse, “non esiste una correlazione piena tra pensionamenti e nuove assunzioni”. Se nel breve periodo magari si potrebbero creare dei posti di lavoro in più, nel lungo – secondo l’economista dell’Ocse – “sarebbe inevitabile l’aumento del costo del lavoro e in un paese che sta invecchiando, quale è l’Italia, si creerebbe un problema di sostenibilità del sistema pensionistico”.
Un’opinione condivisa da Michele Tiraboschi, direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Tiraboschi ha scritto il 5 settembre 2018 su Twitter che la correlazione fatta da Salvini tra pensionamenti e nuovi posti di lavoro per i giovani “è una bella favola. Che si basa sulla idea (sbagliata) che per dare lavoro ai giovani occorra toglierlo agli anziani. Ma così non è”.
Anche secondo l’economista Luigi Campiglio, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano, “Non si creano posti di lavoro con la quota cento”. Ma da un punto di vista microeconomico, nelle parole di Campiglio riportate dal Sole, “mettendosi nell’ottica di un’azienda in salute con dipendenti che potrebbero uscire grazie a questa misura questo potrebbe portare all’assunzione di nuove leve, con un effettivo turnover”.
Diverso il parere di Francesco Seghezzi, direttore della fondazione ADAPT, l’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali. Secondo Seghezzi, il meccanismo per cui mandando in pensione prima i lavoratori anziani si creano posti per quelli più giovani non funziona “neanche nel breve periodo”.
“Il mercato del lavoro è in costante evoluzione”, spiega ancora Seghezzi. “È difficile pensare, ad esempio, che un tornitore entrato nel mercato negli anni ’80 possa essere oggi sostituito da un giovane: sono cambiate le tecnologie, magari il suo posto di lavoro verrà occupato da una macchina, oppure potrebbero essere diverse le commesse dell’azienda e quindi le esigenze occupazionali”.
“Con questi discorsi – prosegue l’esperto – si alimenta un’illusione nei giovani da un lato e lo scontro generazionale dall’altro. Inoltre nel lungo periodo, considerata la dinamica demografica del Paese, dove i giovani sono sempre meno, aver abbassato l’età pensionabile risulterebbe un problema. Ci troveremo infatti presto in una situazione in cui per sorreggere il sistema pensionistico serviranno anzi più lavoratori, non meno”.
Conclusione
Secondo praticamente tutti gli esperti presi in considerazione, non c’è un legame chiaro e diretto tra l’abbassamento dell’età pensionabile e l’aumento dell’occupazione giovanile.
Secondo alcuni, potrebbe esserci un effetto positivo nel breve periodo, secondo altri nemmeno questo. Nel lungo periodo, invece, un abbassamento dell’età pensionabile causerebbe, secondo l’opinione unanime degli esperti citati, un problema per la sostenibilità del sistema pensionistico e avrebbe probabilmente l’effetto di aumentare la disoccupazione.
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