Il tema del lavoro è tornato al centro della scena in campagna elettorale. Oltre ai dati Istat su occupazione e disoccupazione dei quali ci siamo già occupati, diversi esponenti politici si sono espressi a proposito delle politiche da adottare in questo ambito.
Silvio Berlusconi, nello stesso giorno, ha prima detto di voler abolire il Jobs Act di Matteo Renzi (in un’intervista a Radio Anch’io di Rai Radio 1 il 10 gennaio) e poi è tornato sui suoi passi (in un’intervista a Matrix di Radio 105). Matteo Renzi, ancora ieri, ha invece difeso i diversi interventi messi in atto dal suo governo (in un’intervista a Porta a porta), spiegando che però nella prossima legislatura ci si dovrà concentrare maggiormente sulla qualità dei posti di lavoro, dopo che la quantità è tornata a crescere.
Anche Susanna Camusso, leader della Cgil, è intervenuta sull’argomento. In un’intervista a Repubblica dell’11 gennaio, la segretaria del più grande sindacato italiano ha spiegato che dal suo punto di vista non servono ulteriori concessioni alle aziende, perché “i lavoratori non hanno più nulla da scambiare: abbiamo l’età pensionabile più alta d’Europa, l’orario più lungo, tutta la flessibilità che si vuole”.
Abbiamo verificato se effettivamente Camusso dica il vero a riguardo: sull’età pensionabile ha ragione in teoria, ma in pratica no; mentre sull’orario di lavoro i numeri la smentiscono.
L’età pensionabile
Quando si parla di età pensionabile si intende l’età nella quale un lavoratore, per legge, può andare in pensione. Ma non tutte le persone arrivano fino al limite anagrafico stabilito per legge: sia perché rientrano in varie eccezioni (per esempio perché fanno un lavoro usurante) sia perché in Italia è prevista per esempio una pensione “di anzianità” che permette di ritirarsi dal lavoro quando si è raggiunto un certo livello di contributi (intorno ai 40) indipendente dall’età a cui si è iniziato a lavorare.
Insomma: chi ha iniziato a lavorare a 16 o 18 anni, negli ultimi anni, ha raggiunto i requisiti per il pensionamento ben prima del limite anagrafico posto per legge (la cosiddetta “pensione di vecchiaia”).
Lo stesso presidente dell’Inps Tito Boeri ha precisato nel luglio 2017 che nel 2014 l’età di pensionamento effettiva in Italia era “appena sopra ai 62 anni”. Insomma, di fatto tra quanto prevedeva la normativa sulle pensioni di vecchiaia e le età effettive c’era uno scarto variabile - in base al tipo di lavoratore o lavoratrice - tra i due e i quattro anni. Non solo: l’Italia aveva un’età di pensionamento effettiva più bassa di altri grandi Paesi europei.
Sul tema, l’Ocse pubblica un report di confronto internazionale ogni due anni. Il più recente ha dati riferiti al 2016, che fotografano la situazione in base a una media relativa ai cinque anni precedenti e confrontano l’età pensionabile “normale”, ossia prevista per legge, con l’età pensionabile “effettiva”, ossia quando un lavoratore accede realmente alla pensione.
In Italia, come dicevamo, c’è una netta differenza. Dei 35 Paesi presi in esame, molti dei quali europei, l’Italia è 33esima come età effettiva di pensionamento degli uomini (62,1 anni) e 24esima come età effettiva delle donne (61,3 anni). Le corrispettive età previste dalla legge nel 2016 erano invece di 66,6 per gli uomini e 65,6 per le donne. Insomma, in Italia di fatto si va in pensione, in media, quattro anni e mezzo prima della soglia anagrafica massima prevista dalla legge.
Quest’ultima, in effetti, è molto alta, se facciamo un confronto con i dati degli altri Paesi europei. Quella degli uomini nel 2016 era superata solo da Islanda e Norvegia (67 anni) e quella delle donne da Islanda e Norvegia (entrambe 67 anni), Portogallo (66,2 anni) e Irlanda (66 anni).
Se invece guardiamo all’età effettiva, il quadro cambia radicalmente: prima che in Italia ci si ritira dal lavoro in Belgio (61,3 anni) e in Francia (60 anni) per quanto riguarda gli uomini, mentre sono numerosi i Paesi europei che hanno un’età effettiva inferiore per le donne, come Belgio (59,7 anni), Polonia (59,8 anni), Francia (60,3 anni), Austria (60,6 anni) o Lussemburgo (61 anni). La media Ocse, come età effettiva, è assai più alta: 65,1 anni per gli uomini e 63,6 per le donne, principalmente per effetto di paesi extraeuropei (come Corea del Sud e Giappone) che alzano molto il valore.
I dati Ocse si riferiscono al quinquennio 2011-2016 e riportano quindi una situazione ancora in via di modificazione: gli effetti della legge Fornero sono iniziati nel 2012 ma solo negli anni successivi, con l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, hanno avuto e avranno un impatto significativo.
È in ogni caso sicuramente vero che l’Italia sia uno dei Paesi, come si può notare dalla banca dati Eurostat, che più ha innalzato l’età pensionabile - sia prevista sia effettiva - negli ultimi anni, in particolare dopo che gli effetti della riforma Fornero sono entrati in vigore: nel 2012 gli uomini andavano in pensione - età effettiva - in media a 57,8 anni (età più bassa in Europa, che aveva una media di 59,4 anni) e le donne a 58,4 anni (comunque più bassa della media europea di 58,8 anni).
Camusso dunque, anche se si avvicina al vero quando dice che l’Italia ha l’età pensionabile più alta d’Europa - in realtà è una delle più alte, non la più alta in assoluto -, dimentica però di precisare che, in quanto a effettiva età di pensionamento, siamo ancora al di sotto della media europea.
Gli orari di lavoro
La segretaria della Cgil sostiene anche che in Italia “abbiamo l’orario [di lavoro] più lungo” rispetto al resto d’Europa.
Ancora una volta possiamo riferirci alla banca dati Eurostat, dove è possibile verificare quante ore in media lavora un dipendente nell’arco di una settimana. In Italia (dati 2016) si tratta di 37 ore a settimana, appena al di sotto della media europea (37,1 ore) e appena al di sopra della media dell’Eurozona (36,5).
È anche possibile fare una distinzione tra chi lavora a tempo pieno e a tempo ridotto. Per il part-time, l’Italia con 21,4 ore è sopra la media Ue (20,3 ore) ma al di sotto di molti altri Paesi, mentre per quanto riguarda il full-time è al di sotto della media Ue (41,4 ore) con 40,6 ore.
Si può anche fare una distinzione in base alla tipologia di lavoratore o in base al sesso. Per fare un esempio, tra tutti i dipendenti a tempo pieno l’Italia è tra i Paesi con una media di ore lavorate a settimana più bassa per le donne (38,3 ore a fronte della media Ue di 40 ore) ed è comunque sotto alla media anche per gli uomini (41,8 ore a fronte delle 42,3 ore di media Ue).
Se invece si volesse guardare ai manager, si può notare come effettivamente l’Italia sia tra i Paesi con media di ore lavorate a settimana più alta: sono 47,3, inferiori solo alla Grecia con 50,9 e ben al di sopra della media Ue pari a 43,8 ore. Si abbassano invece le ore in rapporto alla media Ue nelle altre categorie professionali, fino ad arrivare alle professioni intellettuali e scientifiche, nelle quali l’Italia è penultima in quanto a ore settimanali rispetto al resto d’Europa (34,1 ore contro 37,6 ore di media Ue).
È anche possibile usare i dati Ocse, che parlano nel 2016 di un totale di 1730 ore lavorate a dipendente nell’arco dell’intero anno, meno della media Ocse (1760 ore/anno) e circa a metà della classifica Ue. Sempre tra i dati Ocse è possibile notare come le ore settimanali lavorate tra i dipendenti siano state 35,5 nel 2016.
Insomma, a meno che Camusso si riferisse esclusivamente ai manager, cosa insolita per una dirigente sindacale, non è vero che in Italia ci sia l’orario di lavoro più lungo.
La flessibilità sul lavoro
Questo è l’argomento più complesso da affrontare, in parte perché Camusso parla semplicemente di “tutta la flessibilità che si vuole”, senza instaurare quindi un raffronto con gli altri Paesi europei come nelle affermazioni precedenti, in parte perché il concetto stesso di “flessibilità” non è unanimemente condiviso.
L’unico indice esistente della flessibilità del lavoro è l’Indicators of Employement Protection (indice Epl - Employement Protection Legislation) dell’Ocse, che prova a misurare quanto siano protetti i posti di lavoro nelle varie legislazioni nazionali (e ha ricevuto qualche critica).
Come dice il nome stesso, l’indice Epl rileva il grado di protezione garantita ai lavoratori secondo 18 diversi aspetti inerenti a tre macroaree: il livello di protezione dei singoli lavoratori a tempo indeterminato contro un licenziamento individuale, i requisiti per i licenziamenti collettivi e le normative per i contratti di lavoro a termine. Più è alto il dato dell’indice, più i lavoratori sono protetti.
Il Paese all’interno dell’indice Epl con il dato più alto, cioè con il maggior grado di protezione dei lavoratori, è il Venezuela con il 3,5 nel 2014 per i dipendenti a tempo indeterminato e il 5,2 per quelli a termine. L’aggiornamento più recente dell’indice per quanto riguarda l’Italia è del 2013, prima cioè che il Jobs Act riformasse il mercato del lavoro italiano.
In quel momento, l’Italia era tra i Paesi più tutelati per quanto riguarda i lavoratori a tempo indeterminato, con un indice di 2,8, mentre calava in classifica per quanto riguarda i lavoratori precari pur avendo un indice di 2,7. Per dare un’idea, un Paese come la Germania aveva nel 2013 un indice di 3 per i lavoratori a tempo indeterminato e di 1,8 per quelli precari. La Francia invece aveva un indice identico all’Italia (2,8) per gli indeterminati e molto più alto per i precari (3,8).
Se non si può ancora avere un dato aggiornato a dopo il Jobs Act, si può però fare un raffronto sul periodo precedente.
Per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato, di fatto la situazione del 2013 è quasi invariata rispetto al 1990. Invece, relativamente ai contratti a termine, si può notare come dal 1990 al 2013 si sia passati da un indice di 4,88 a 2, con in particolare due grandi scatti: nel 1998, con passaggio da 4,75 a 3,63 - per effetto della Legge Treu varata nel 1997 dal governo Prodi - e poi tra il 2002-2003 con passaggio da 3,25 a 2 - per effetto della Legge Biagi varata nel 2003.
Al netto dell’impossibilità di fare una verifica su dati più recenti, sicuramente è vero che negli ultimi 20 anni il mercato del lavoro in Italia sia diventato parecchio più flessibile, soprattutto relativamente ai contratti a termine. Se poi si considera che, durante l’ultimo governo, sono stati modificati l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti, si può dire che anche il mercato del lavoro per i contratti a tempo indeterminato sia stato reso più flessibile.
Conclusioni
Le affermazioni di Susanna Camusso si sono rivelate ambigue riguardo all’età pensionabile, perché se ci si riferisce a quella prevista per legge l’Italia è tra i Paesi con età più alta – ma non con la più alta in assoluto – ma se si ragiona in termini di età effettiva è al di sotto sia della media europea sia della media Ocse.
La leader della Cgil è stata invece decisamente imprecisa a proposito dell’orario di lavoro, che in Italia non è il più alto in Europa, ma anzi tendenzialmente al di sotto della media.
Si può invece dire che Camusso abbia ragione sul fatto che il mercato del lavoro in Italia sia stato reso più flessibile, sia se rapportato ad altri Paesi europei sia – anzi, a maggior ragione – se rapportato agli anni precedenti nella stessa Italia.