Il deputato PD e commissario alla spending review Yoram Gutgeld ha presentato alla Camera dei deputati, lo scorso 20 giugno, il rapporto sulla revisione della spesa.
Per il 2017 ha parlato di “risparmi” per 29 miliardi e 947 milioni e per il 2018 altri, previsti, per 31 miliardi e 500 milioni. Un risultato tanto impressionante che anche il Financial Times, l’indomani, ha titolato: “Italy to cut spending by €62.5bn over two years” [L’Italia taglierà le spese per 62,5 miliardi in due anni].
Davvero l’Italia ha tagliato o sta per tagliare la spesa pubblica di circa 30 miliardi l’anno? Si tratta di numeri molto consistenti in termini assoluti, e di un certo peso anche in rapporto alla spesa pubblica complessiva, che nel 2016 è stata di circa 830 miliardi di euro. Proviamo a fare qualche precisazione.
1. I “risparmi” non per forza riducono
Per prima cosa, il titolo del Financial Times è di certo scorretto, così come tutte le dichiarazioni che parlano di “tagli da 30 miliardi” senza specificare meglio.
Lo stesso Gutgeld, infatti, riconosce all’inizio della sua relazione che i “risparmi” non si traducono automaticamente in minore spesa. Lo “spazio di bilancio” ottenuto con la spending review può essere usato – e come vedremo, è stato fatto – per abbassare la spesa, ridurre il deficit pubblico e ottenere altri risultati di finanza pubblica.
Già nel marzo 2016, quando Renzi sosteneva ci fosse stato un taglio di 25 miliardi di euro alla spesa pubblica, la giornalista del Foglio Veronica De Romanis aveva sollevato il problema di come questa riduzione si potesse conciliare con le previsioni di Eurostat che – a politiche invariate – prevedevano un ulteriore incremento delle uscite pubbliche (da 826 miliardi del 2014 a 835 del 2016).
“La risposta – scriveva De Romanis – la si trova sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) in una breve nota dal titolo ‘Quanto pesa la Spending Review?’. Il comunicato precisa che i risparmi per 25 miliardi di euro realizzati nel 2016 “hanno consentito di finanziare alcune delle misure a sostegno della crescita e dell’occupazione”.
I dettagli di queste misure non sono illustrati nella Nota, ma una cosa è chiara: i tagli effettivi non possono essere 25 miliardi di euro, dal momento che sono stati utilizzati per coprire incrementi di “altra” spesa pubblica.
Per sapere a quanto ammontano i tagli “netti” per il 2016, anche in questo caso, bisogna andare sul sito del Mef. Nella tabella a pagina 4 del documento redatto dalla Ragioneria generale dello stato (‘La Manovra di Finanza Pubblica per il 2016-2018’), si evince che, per l’anno 2016, la cifra totale della ‘variazione netta delle spese’ è pari a 360 milioni di euro, di cui 41 di spesa corrente e 319 di spesa in conto capitale”.
Insomma, la prima conclusione importante è questa: la diminuzione della spesa pubblica nel suo complesso è stata nel 2016 nell’ordine di qualche centinaio di milioni.
2. La questione degli 80 euro
Lo scorso anno, Gutgeld rispose dicendo, tra le altre cose: «La spesa corrente l’anno scorso era quasi 12 miliardi di euro più bassa che nel 2014 (749,6 miliardi contro 761,5 miliardi, classificando gli 80 euro per quel che sono, una riduzione di tasse)».
Qui c’è il secondo problema, che non è nuovo: come classificare gli 80 euro.
Il dibattito se gli 80 euro vadano classificati come riduzione delle tasse o come aumento di spesa dura da anni tra gli economisti e vede ad esempio su fronti opposti il Ministero dell’Economia, che opta per la prima soluzione, e l’Istat, che invece nei suoi calcoli utilizza la seconda, in accordo con le regole di bilancio europee.
Ma al di là di questa sempre verde polemica, come nota Mario Seminerio su Phastidio.net, stavolta il problema non si esaurisce qui.
Nel rapporto presentato da Gutgeld il 20 giugno scorso, infatti, gli 80 euro vengono prima fatti pesare (circa per la metà) nella riduzione della spesa. Poi si sostiene che i risparmi ottenuti vengono utilizzati per finanziare una serie di misure: riduzione del deficit, riduzione della pressione fiscale, ammodernamento e ampliamento dei servizi pubblici, dove per oltre la metà (12,7 miliardi su 23,8 totali) sono “prestazioni sociali”.
Ma la riduzione della pressione fiscale (dal 43,6% al 42,3%) dipende, di nuovo, in gran parte dagli 80 euro. Così come le “prestazioni sociali” sono quasi esclusivamente gli 80 euro.
Ovvero: la misura con cui si sostiene di aver ridotto in buona parte la spesa è anche la destinataria di molte risorse che sono derivate dalla riduzione della spesa.
Seminerio descrive questo meccanismo come “un moto perpetuo”, che però non funziona se non facendo ampiamente ricorso al deficit, cosa che in questi anni è stata possibile – con qualche brontolio da Bruxelles – grazie a un miglior rapporto deficit-Pil dovuto alla fase di espansione dell’economia europea.
3. Come si arriva a 30 miliardi
Oltre ai miliardi provenienti dalla misura degli 80 euro, contribuiscono al totale di 30 miliardi stimati anche il blocco del turnover nella pubblica amministrazione, che ha diminuito il personale nel triennio 2013-2016 di 84 mila unità (al netto del comparto scuola), e quindi anche il suo costo, e il rafforzamento degli acquisti centralizzati nelle PA.
A questo ultimo obiettivo hanno concorso il rafforzamento di Consip e l’istituzione dei Tavoli dei soggetti aggregatori, col dl 66/2014, che ha generato un risparmio medio del 23% per le gare in cui quei Tavoli sono intervenuti.
Conclusioni
È sicuramente sbagliato parlare, come ha fatto il Financial Times, di un “taglio” della spesa pubblica di 60 miliardi in due anni. La spesa pubblica italiana, nel suo complesso, non registra diminuzioni significative. Secondo il DEF 2017, dagli 825,4 miliardi di uscite pubbliche del 2014 si è passati a 830,1 nel 2015, a 829,3 nel 2016 e per il 2017 è previsto un totale di 826,9 miliardi di euro. Una riduzione, qualora si avverasse, di soli 2,4 miliardi di euro.
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