Convincere, non informare: questo è il fine del dibattito politico. Se gli uomini pubblici usano dati, numeri, fatti, è per sostenere una tesi o mandare un messaggio. E spesso, come è ormai quasi un luogo comune, quei dati, quei numeri e quei fatti non sono corretti.
Non si tratta certo di un fenomeno nuovo. Quasi tremilacinquecento anni fa, il re babilonese Kadashman-Enlil scrisse al faraone Amenhotep III per dirgli che qualcosa non tornava, nelle sue promesse. «Mi hai inviato come dono, l’unico da sei anni a questa parte, trenta mine d’oro che sembravano proprio argento», scrisse.
Nell’Antico Egitto non esisteva stampa periodica né giornalisti, ma la verifica dei fatti, quello che oggi si chiama fact-checking, è senza dubbio mestiere molto antico. Tendiamo a dare nomi nuovi a cose antiche, e così qualche settimana fa un articolo del Financial Times ha parlato di «fake news» e di «guerra di disinformazione» a proposito dello scontro tra Marco Antonio e Ottaviano, qualche anno prima della nascita di Cristo.
Allo stesso modo, si potrebbe dire che il potere temporale dei pontefici si è basato per secoli su una bufala – la donazione di Costantino – e che il primo debunker a entrare nella storia è stato Lorenzo Valla, con il suo celebre Discorso su quel documento, «contraffatto e a torto ritenuto vero», scritto intorno al 1440.Quindi, proviamo a fare ordine: per non tornare ai tempi dei Faraoni, ha senso oggi parlare di fact-checking quando chi parla è un politico, o una figura pubblica, e chi controlla è un membro del pubblico, uno di quelli a cui il messaggio è rivolto. Inclusa, naturalmente, la stampa e i giornalisti (ma molti fact-checker oggi non appartengono alla categoria, né si identificano con essa).
Dove e quando è nato il fact-checking
Come, e quando, è nato il fact-checking nel suo significato contemporaneo? Data e luogo di nascita sono chiari: gli Stati Uniti, nei primi anni Duemila. Il termine, però, rimandava già allora a una lunga e rispettabile tradizione nel giornalismo americano.
Quando il giovane giornalista Henry R. Luce fondò TIME insieme a Briton Hadden, nel 1923, il suo obbiettivo era quello di creare un nuovo tipo di periodico, che informasse i suoi lettori con brevi e chiari articoli sui fatti del mondo. Il successo fu rapido – quattro anni dopo vendeva circa 175 mila copie la settimana – e il modello venne copiato da gran parte degli altri periodici generalisti americani.Nel giornalismo le prime fact-checker erano donne
Era fondamentale, per Luce, che le notizie del suo periodico fossero precise e corrette: la prima idea di nome per la nuova rivista era Facts, “fatti”. Nacque così probabilmente il primo dipartimento di fact-checking in una redazione, dedicata al controllo di tutte le informazioni fattuali contenute negli articoli. Era un lavoro minuzioso e poco gratificante, e per molti anni fu tradizionalmente riservato alle donne. Nei primi tempi del fact-checking, il redattore di TIME Edward Kennedy scrisse in un memo interno, con parecchio paternalismo:
«Il controllo [dei fatti]… è visto a volte come un’occupazione monotona e noiosa, ma concepire così questo ruolo è assai sbagliato. Ogni ragazza brillante che si impegni davvero nel problema del controllo dei fatti può passare del tempo in modo molto piacevole e riempire la settimana di momenti felici e occasioni memorabili».
E proseguiva:
«Il punto più importante da ricordare nel controllo dei fatti è che l’autore dell’articolo è il vostro nemico naturale. Sta provando a vedere quanto in là si può spingere senza essere beccato. Ricordate che quando la gente scriverà lettere segnalando errori, sarete voi quelli contro cui si griderà. Quindi proteggetevi…».
Come è nata la squadra dei controllori più precisi del giornalismo
Gli errori, in effetti, erano in agguato. Il più celebre reparto di fact-checking, oggi, è quello del settimanale New Yorker, intorno a cui esiste una ricca collezione di aneddoti nutrita a volte dalla rivista stessa. Al New Yorker vengono verificate anche le vignette: se, per esempio, un’immagine ritrae un taxi newyorkese, sarà cura della sezione di fact-checking verificare se il numero della vettura potrebbe davvero appartenere ai registri cittadini.
Gli inizi del fact-checking al New Yorker furono assai poco gloriosi. Il cofondatore e primo direttore del settimanale Harold Ross aveva una certa ossessione per i dettagli, e dedicò un’apposita sezione, “Newsbreaks”, a prendere in giro gli errori delle altre pubblicazioni.
Nel numero del 12 febbraio 1927 venne pubblicato un profilo della poetessa Edna St. Vincent Millay che cominciava così: «Il padre di Edna Millay era un lavoratore portuale sui moli di Rockland, Maine. E così suo padre.»Il problema era che il genitore della poetessa non era un portuale, né lo era suo nonno, e anche il resto dell’articolo era così poco preciso che, si narra, la madre di Edna Millay in persona si presentò agli uffici della rivista a New York minacciando cause legali se le inaccuratezze non fossero state corrette. Il New Yorker si adeguò e provvide a dotarsi di una sezione di fact-checking. Col tempo essa sarebbe cresciuta fino ad occupare, nel 2012, una squadra di sedici persone.
La crisi dei giornali, e quella dei controllori
Durante gli anni Ottanta, addetti al fact-checking si trovavano in tutte le redazioni dei principali periodici americani. Era un ruolo che allenava alla precisione e alla ricerca, spesso il primo gradino per fare carriera all’interno delle redazioni.
Nel tipico procedimento di controllo, il fact-checker leggeva accuratamente l’articolo da pubblicare e segnava tutti i dati e i fatti che avevano bisogno di una verifica indipendente. Si faceva poi consegnare i materiali utili dall’autore – registrazioni audio, appunti, nomi delle fonti – e procedeva per settimane, a volte mesi a spuntare a fianco del testo, uno per uno, i dati confermati.
Il mestiere imponeva di essere implacabili tanto verso i giornalisti quanto verso le fonti e gli esperti che potevano fornire conferme. «I bravi fact-checker hanno un’inclinazione soprannaturale per la pedanteria», ha scritto Ta-Nehisi Coates, scrittore e giornalista dell’Atlantic.
Poi, con la crisi dei periodici negli anni Novanta, i tagli alle redazioni hanno spesso colpito in primo luogo proprio i reparti di fact-checking. La storica sezione del TIME è stata chiusa nel 1996, e nel 2012 un criticatissimo articolo dello storico Niall Ferguson contro Obama pose l’attenzione sul fatto che il glorioso Newsweek non aveva nessuno dedicato al controllo delle informazioni. Come disse un portavoce della rivista, per l’accuratezza del materiale si faceva affidamento (solo) sugli autori.
La rinascita, grazie al web
I tempi erano maturi per una rinascita del fact-checking, e questa avvenne nei primi anni Duemila grazie al web. Nella sua nuova forma, la verifica dei fatti si concentra sulle dichiarazioni dei politici, non più sugli articoli dei giornalisti, e si pone come voce di controllo imparziale e indipendente sui dati alla base della discussione pubblica.
Nella primavera del 2001, tre studenti americani da poco usciti dall’università fondarono Spinsanity – sottotitolo: “Combattere la retorica con la ragione”. Si dedicarono all’analisi del discorso politico durante la prima presidenza di George W. Bush e, oltre a scrivere circa 400 articoli in quattro anni, trassero dalla loro esperienza un libro (All The President’s Spin) di un certo successo su scala nazionale, prima di chiudere il progetto a settembre del 2005.
Nel frattempo, all’interno dell’Università della Pennsylvania era nato FactCheck.org, un servizio no-profit online dalla fine del 2003 e nato inizialmente dalla collaborazione tra un accademico, Kathleen Hall Jamieson, e un giornalista politico dalla lunga esperienza, Brooks Jackson. Oggi lavorano a FactCheck.org otto persone e quattro stagisti.
L’errore capolavoro del repubblicano Cheney, che affossò i repubblicani
Le lunghe campagne presidenziali statunitensi, con la loro aspra contrapposizione e la copertura mediatica continua e minuziosa, sono stati i momenti cruciali per la fortuna dei progetti di fact-checking americani. L’episodio più celebre risale al 2004, pochi mesi dopo la nascita di FactCheck.org, ed è frutto di un leggero errore di memoria e delle caratteristiche bizzarre dell’Internet di qualche anno fa.Il 5 ottobre di quell’anno andò in onda un dibattito televisivo tra i due candidati alla vicepresidenza, il repubblicano Dick Cheney e il democratico John Edwards. A un certo punto i due presero a discutere della multinazionale del settore petrolifero Halliburton, in cui Cheney aveva avuto un ruolo di primissimo piano.
Per rispondere alle accuse del suo avversario, Cheney rispose con una certa rabbia: «Se andate, per esempio, su FactCheck.com, un sito web independente sponsorizzato dall’Università della Pennsylvania, potete trovare i dettagli sulla questione Halliburton».
Cheney diede un’indicazione errata – l’indirizzo corretto era, ed è, FactCheck.org – e il caso vuole che il dominio “.com” fosse di proprietà di un imprenditore del settore web, Frank Schilling. “FactCheck.com” conteneva solo una serie di rimandi a siti che vendevano dizionari ed enciclopedie, e in poco tempo i suoi dati di traffico non particolarmente esaltanti arrivarono a registrare 100 accessi al secondo.
Oggi Schilling è un imprenditore canadese di 47 anni che abita alle isole Cayman ed è diventato ricco come domainer, ovvero grazie alla compravendita di domini web – uno degli strani modi di fare fortuna nei primi tempi del web (possiede centinaia di migliaia di domini, tra cui anctartica.com). In quel giorno del 2004, Schilling si trovava in una camera d’albergo a Naples, Florida, dove abitava da qualche tempo con la sua famiglia perché la sua casa alle Cayman era stata semidistrutta dall’uragano Ivan un mese prima.
Non stava seguendo il dibattito, ma non poté fare a meno di notare che i suoi server stavano per essere travolti dal traffico a causa del suo anonimo sito di dizionari ed enciclopedie. Quasi nessuno cliccava sui link pubblicitari – il suo modo di guadagnare dal sito – e Schilling scoprì rapidamente, tramite Internet, che la causa di tutto quel movimento era una frase di Dick Cheney.
Il domainer non aveva una grande simpatia per la causa repubblicana e decise quindi di dirottare tutto il traffico verso GeorgeSoros.com, gestito dal magnate statunitense assai critico verso il presidente uscente. In quel momento, il sito apriva con un editoriale dal titolo “Perché non dobbiamo rieleggere Bush”, che venne visto da milioni di persone desiderose di verificare quanto detto… dal candidato alla vicepresidenza di Bush.
Il caso ebbe grande risalto sulla stampa nazionale e contribuì a rendere più conosciuti i fact-checkers. Da parte loro, quelli di FactCheck.org dissero che avevano pubblicato articoli su Cheney e la Halliburton, ma la lettura che ne aveva dato il candidato era fuorviante.
Il ruolo del baseball nella nascita di PolitiFact
I primi progetti americani non erano passati inosservati. Nel 2005, primo in Europa, l’emittente britannica Channel 4 avviò un blog dal titolo “Fact- check” (ancora attivo). Negli anni successivi, ancora nel Regno Unito, lo seguirono le esperienze di “Reality Check”, un blog collettivo del quotidiano Guardian, e la no profit Full Fact.
Di là dell’Atlantico, nell’estate del 2007 era di nuovo tempo di elezioni presidenziali. Il giornalista politico Bill Adair lavorava per il quotidiano della Florida St. Petersburg Times (oggi Tampa Bay Times) e si stava preparando a seguire una nuova campagna, quella tra il senatore dell’Illinois Barack Obama e il repubblicano John McCain.A capo dell’ufficio di Washington del Times, Adair si era stancato di riportare le dichiarazioni opposte dei vari esponenti politici ed era alla ricerca di modi nuovi di raccontare ai lettori la politica americana. L’intuizione gli venne dalle figurine del baseball, che riportano le statistiche sportive dei giocatori: pensò quindi a un indicatore, il Truth-O-Meter, che assegnava ad ogni dichiarazione un “verdetto” di veridicità lungo una scala prefissata.
Nacque così PolitiFact, uno dei progetti di fact-checking più famosi degli Stati Uniti, che seguì la campagna in modo così originale e apprezzato da vincere un Premio Pulitzer per il giornalismo nazionale nel 2009 grazie alla sua copertura delle presidenziali dell’anno precedente.
Ad agosto 2008, nel frattempo, era diventato celebre il fact-checking di FactCheck.org sul certificato di nascita di Barack Obama – la cui nascita nel territorio USA era messa in dubbio da alcuni conservatori, tra cui Donald Trump – intitolato “Born in the USA”.
Da lì in poi, il fact-checking si guadagnò un posto di tutto rispetto nel panorama dell’informazione americana, con decine di nuovi progetti e declinazioni a livello locale. Durante i dibattiti presidenziali del settembre-ottobre 2016, sia Hillary Clinton che Donald Trump hanno fatto diversi espliciti riferimenti alla verifica dei fatti: Clinton disse rivolta agli ascoltatori, ad esempio, che la pagina principale del suo sito era stata trasformata per l’occasione del dibattito in uno strumento di verifica, di fact-checking appunto.Storia del fact-checking in Italia
In Italia, il fact-checking si è inizialmente diffuso più o meno in contemporanea con i maggiori progetti americani, su interesse di alcuni giornalisti particolarmente attenti all’evoluzione dell’ambiente dei media su Internet o alla divulgazione scientifica come Paolo Attivissimo e Luca Sofri, curatore per alcuni anni della rubrica “Notizie che non lo erano” sulla Gazzetta dello Sport. Alcuni progetti indipendenti con un’ottima reputazione nell’ambiente della Rete italiana, come il sito di analisi economica LaVoce.info, si sono impegnati in operazioni di fact-checking.
Dopo un periodo di grande fermento e di creazione di progetti più o meno effimeri intorno al 2010, alcuni progetti hanno raggiunto una certa stabilità e diffusione, come ad esempio Politicometro, basato a Genova e attivo tra marzo 2012 e ottobre 2014.
Alla fine del 2012 è nato anche il progetto Pagella Politica che collabora nella sezione fact-checking dell'agenzia di stampa Agi. E a dicembre il blog sul quotidiano online IlPost.it del giornalista Davide Maria De Luca, inizialmente dedicato al solo fact-checking di affermazioni fatte durante i talk show politici serali. Pagella Politica ha avviato una collaborazione pluriennale con RAI2, inizialmente all’interno del programma Virus e oggi con un ospite fisso – il già citato De Luca – durante Night Tabloid condotto da Annalisa Bruchi.
Leggi anche: Tutti i fact-checking di Agi.it
Anche il quotidiano La Stampa ha dimostrato un interesse importante e precoce per la pratica del fact-checking. Il 14 gennaio 2013, in vista della campagna elettorale di quell’anno, venne lanciata l’iniziativa La macchina della verità, per occuparsi appunto dei numeri citati nel corso della contesa prima del voto.
Nello stesso periodo, un gruppo formato da Dino Pesole, giornalista del Sole 24 Ore, Massimo Leoni, della redazione di Sky Tg24, e Simonetta Pattuglia, docente di Marketing e comunicazione dell’Università di Roma “Tor Vergata”, ideò l’esperimento del primo fact- checking televisivo (quasi) in tempo reale, andato in onda per la prima volta nel novembre 2012 con il confronto tra i due candidati alle primarie del Partito Democratico Matteo Renzi e Pierluigi Bersani.
Al momento, in Italia, non risultano attivi altri progetti di grandi dimensioni dedicati esclusivamente al fact-checking politico oltre a Pagella, mentre esistono almeno tre siti di rilievo dedicati al contiguo campo del debunking delle notizie false (ma senza uno specifico focus sulle dichiarazioni politiche): Butac – Bufale un tanto al chilo, Bufale.net e Debunking.it, generalmente molto attivi sui social network e dalla produzione costante. In campo scientifico e della salute, ha avuto una grande fortuna il blog del medico Salvo Di Grazia, Medbunker.
Tra le iniziative più recenti, nell’estate del 2016 è nata Factcheckers.it, un’associazione non a scopo di lucro che ha come primo obiettivo la diffusione della «cultura della verifica delle fonti tra studenti, docenti, organizzazioni educative». Si occupa di divulgazione e formazione, nelle scuole, negli atenei e anche sui media generalisti.
Il fact-checking oggi
Ma quanti sono i progetti di fact-checking oggi? Secondo il censimento aggiornato periodicamente dal Duke Reporters’ Lab – istituto di ricerca della Sanford School of Public Policy presso la Duke University di Durham, North Carolina – a febbraio 2017 erano attivi nel mondo circa 120 iniziative in oltre quaranta paesi del mondo. Il 90 per cento di essi è stato lanciato dopo il 2010; una cinquantina si trovano negli Stati Uniti, dove negli ultimi anni sono nati diversi progetti a livello locale.
Le organizzazioni di fact-checking hanno un continuo scambio tra loro – una mailing list chiede periodicamente informazioni per aiutare i confronti internazionali e raccogliere dati da paesi diversi – aiutato dall’International Fact-Checking Network (IFCN), con sede alla prestigiosa scuola di giornalismo Poynter, in Florida. Ogni anno viene organizzato un convegno internazionale con parecchie decine di progetti rappresentati: la prossima edizione, la quarta, si terrà a Madrid in luglio.
Il 2 aprile 2017 si celebra per la prima volta la Giornata Internazionale del Fact-Checking, una serie di iniziative curate dai diversi progetti nazionali per sensibilizzare il pubblico sull’affidabilità delle notizie, l’accuratezza delle dichiarazioni e i modi per verificarle. La reale consistenza dell’oro del faraone può essere persa per sempre nelle nebbie della storia, ma oggi ci sono parecchi pignoli in giro che non mancherebbero di distinguere l’oro dall’argento, il vero dal falso, le bufale dalla realtà.
Giovanni Zagni, Pagella Politica
Twitter: @giovannizagni