In un’intervista a sei quotidiani europei, tra cui La Stampa per l’Italia, il presidente francese uscente Francois Hollande ha dichiarato: “Per molto tempo l’idea di un’Europa diversificata, con velocità differenti, ha suscitato resistenza: oggi è l’idea che si impone, sennò sarà l’Europa a esplodere”. Di cosa sta parlando esattamente l’inquilino dell’Eliseo?
L’Europa a diverse velocità
In una certa misura l’Unione europea già conosce “diverse velocità”. L’Euro, innanzitutto, è la valuta di 19 Stati membri su 28. Dunque già è prevista una diversa integrazione – monetaria in questo caso – nella Ue.
In realtà, a norma dei trattati, l’Euro è obbligatorio per tutti gli Stati membri nel momento in cui raggiungono determinati parametri economici. Gli unici esenti da tale regola sono (erano) i britannici, che tanto stanno per abbandonare l’intera Ue, e i danesi, in virtù di specifici opt-out, cioè possibilità di “chiamarsi fuori” da specifiche obbligazioni previste dai trattati. Dei restanti sette Stati che non hanno l’Euro, solo la Svezia ha raggiunto i parametri di Maastricht ma ancora non ha adottato la valuta unica.
Anche lo spazio Schengen è, in qualche misura, una integrazione differenziata già esistente: non ne fanno parte infatti alcuni Stati Ue (Regno Unito, Irlanda, Romania, Bulgaria, Cipro e Croazia), e ne fanno parte alcuni Stati extracomunitari come Svizzera, Norvegia e Islanda.
Ma le diverse velocità di cui parla Hollande sono un progetto più ambizioso. Si tratta della possibilità per un numero ristretto di Stati membri di procedere a un’integrazione più stretta in diverse materie di competenza non esclusiva Ue (come politiche sociali, giustizia, mercato interno, politica estera e di difesa comune etc.) senza che sia necessario il consenso di tutti.
I meccanismi per portare avanti questo progetto sono già previsti dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il primo dicembre 2009, e sono le cooperazioni rafforzate e la cooperazione strutturata permanente nell’ambito della Politica estera di sicurezza e difesa (Pesd). Per le prime è richiesto un numero minimo di 9 Stati membri che partecipino, mentre per la seconda non c’è un requisito numerico ma ci sono requisiti circa le capacità militari dei Paesi interessati.
In entrambi i casi è sempre possibile, per gli Stati che non hanno aderito in un primo momento, chiedere di essere ammessi successivamente.
Le resistenze del passato
Come giustamente sottolineato dal presidente francese, le diverse velocità hanno finora suscitato resistenze, specialmente da parte dei Paesi dell’Est Europa che su alcune materie hanno spesso cercato di frenare l’integrazione.
Pur essendo previste fin dal Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, le cooperazioni rafforzate non sono mai state utilizzate nei dieci anni successivi. Dopo il Trattato di Lisbona del 2009 (ultima riforma dei trattati Ue), che le ha molto semplificate e ne ha esteso i possibili campi d’applicazione, sono state utilizzate raramente e solo in ambiti molto specifici.
In particolare sono state autorizzate in tre occasioni, per legge applicabile in materia di divorzio, per il brevetto europeo e per l’istituzione di un’imposta comune sulle transazioni finanziarie.
Torna l'idea del "nocciolo duro"
Dopo lo choc della Brexit e dell’elezione di Trump negli Usa, il vento in Europa è cambiato. In particolare nel “nocciolo duro” europeo – i sei Stati fondatori, Germania, Francia, Italia e Be-Ne-Lux – i vertici istituzionali hanno iniziato a caldeggiare il passaggio a una Ue a diverse velocità.
Il presidente francese cita esplicitamente le cooperazioni rafforzate, “per far andare più velocemente alcuni Paesi senza che altri siano lasciati indietro, ma senza che possano neanche opporsi”.
Angela Merkel si è espressa a favore di una simile soluzione. Addirittura la Cancelliera ha chiesto che le diverse velocità vengano esplicitamente menzionate nella Dichiarazione che dovrebbe uscire dal prossimo vertice di Roma, quello per festeggiare i 60 anni dei Trattati europei. Qui, secondo la Merkel, si dovrà delineare il futuro dell’Unione europea per i prossimi decenni.
Anche il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, ha schierato il proprio Paese tra quelli che vogliono più Europa e vuole andare avanti “con tutti quelli che intendono proseguire nell'integrazione”.
Per Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio italiano, serve un’Unione europea “più integrata ma che possa consentire diversi livelli di integrazione. È giusto e normale che i Paesi possano avere ambizioni diverse e che a queste ambizioni ci siano risposte diverse, mantenendo il progetto comune”.
Infine i rappresentanti del Be-Ne-Lux (Belgio, Olanda, Lussemburgo), nel documento-contributo alla Dichiarazione di Roma, scrivono che “diversi percorsi di integrazione e di cooperazione rafforzata potrebbero fornire risposte efficaci alle sfide che interessano gli Stati membri in modi diversi”.
Perché dovrebbe funzionare?
Esiste una dicotomia tra l’allargamento dell’Unione europea, cioè la sua espansione territoriale grazie all’arrivo di nuovi membri, e il suo approfondimento, cioè un aumento dell’integrazione tra i suoi Stati membri esistenti. Aumentando il numero di Stati membri aumenta il tempo necessario per trovare un accordo e se ne diluisce il contenuto, a causa dei veti che singoli Stati o minoranze di blocco sono in grado di porre.
Da un punto di vista storico, si può dire che l’allargamento da 15 a 25 del 2004 (a 27 nel 2007) abbia aumentato le disomogeneità interne alla Ue e abbia quindi rallentato il processo verso maggiore integrazione. Ai referendum del 2005, i cittadini francesi e olandesi bocciarono la Costituzione europea proprio per il timore delle conseguenze dell’allargamento (che tuttavia non era materia del referendum), e negli anni successivi i veti e le pretese dei singoli Stati rallentarono a lungo l’adozione del Trattato di Lisbona, che riprendeva molti dei contenuti della Costituzione.
Gli anni della crisi hanno costretto gli Stati a una maggiore integrazione in materia economica e di bilancio, ma ad essa non si è accompagnata una maggiore integrazione da un punto di vista sociale, politico, fiscale, militare e così via.
Il meccanismo delle cooperazioni rafforzate, riducendo il numero di partecipanti, dovrebbe ottenere il risultato inverso rispetto all’allargamento. Le decisioni dovrebbero infatti essere prese più rapidamente, tra Stati più omogenei in partenza e dunque con meno compromessi al ribasso sul contenuto.
Non solo. La nascita di “avanguardie” di Stati che procedono ad un’integrazione maggiore tra loro, specie se le cooperazioni si dovessero rivelare dei successi, dovrebbe anche funzionare da incentivo per gli altri membri inizialmente scettici.
Infine un’Unione europea che accetti la possibilità di vari gradi di integrazione dovrebbe rendere meno difficile la permanenza al proprio interno per quegli Stati che non vogliono rinunciare a troppe delle proprie prerogative nazionali. Se, infatti, chi vuole una maggiore integrazione può procedere senza doversi trascinare dietro tutti gli altri, il beneficio opera in entrambi i versi.
Insomma: non è possibile affermare con certezza che una mancata adozione delle “diverse velocità” porterebbe la Ue a “un’esplosione” – come sostiene Hollande – si può comunque dire che allo stato attuale sono lo strumento più immediato ed efficace per risolvere il problema della lentezza nell’approfondimento dell’”Unione sempre più stretta tra popoli e Stati”.