di Nicola Graziani
Boston - Non c'e' da stupirsi, se Donald Trump ora fa sapere che non sosterra' nessun candidato repubblicano alla Casa Bianca che non sia lui stesso, e non solo perche' la cosa rientra perfettamente nella sua visione del mondo. Il fatto e' che ora ha la quasi certezza che il Partito Repubblicano si prepara con grande cura a far uscire un altro candidato dalla Convention di Cleveland. Anzi, e' a buon punto con il lavoro, e se lui non dovesse raggiungere il prima possibile il numero magico di 1.237 delegati, che vogliono dire designazione a botta secca fin dalla prima votazione, le cose si complicherebbero non poco.
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Complici lo statuto del partito e la sua dabbenaggine di miliardario che si autoimpresta alla politica senza conoscerne le sottigliezze. "Il gioco consiste nell'essere la seconda scelta di ogni delegato di Trump", e' la sintesi di Saul Anuzis, l'ex presidente del Grand Old Party del Michigan (una potenza nel partito, apertamente schierato con Ted Cruz). Il motivo e' semplice: secondo il regolamento, le primarie servono si' a designare il numero dei delegati di ciascun candidato alla convention, ma non - si badi bene - a stabilire la loro effettiva fedelta' indefessa al suo nome. In altre parole, esiste un vincolo di mandato a votare per il proprio candidato, ma solo alla prima votazione. Poi liberi tutti, nel nome del principio che il vincitore prende tutto, ma per prendere tutto deve vincere. Se non ce la fa, si faccia avanti un altro. E' la democrazia, bellezza.
Si profila quindi un possibile scenario di questo tipo: se il miliardario non arriva alla maggioranza assoluta con le proprie forze, nulla impedisce che, constatato dopo la prima votazione il suo fallimento, emergano i distinguo, i ripensamenti, per non dire i tradimenti. E, in effetti, questa convention nella convention e' gia' iniziata, con gli uomini di Cruz e Kasich sguinzagliati da settimane a blandire, accarezzare, magari velatamente minacciare come in ogni congresso di partito che si rispetti. Tanto che i calcoli dello staff di Cruz prevedono fin da ora almeno 200 delegati pronti a non insistere sul loro candidato, qualora Trump non dovesse riuscire al primo colpo. Piu' del dieci percento del totale dei delegati: un'enormita'.
Il ribaltone va lentamente prendendo corpo in quella miriade di conciliaboli e convention locali che, passato il momento dei riflettori e delle primarie, concretamente selezioneranno nei prossimi tre mesi i nomi da mandare a Cleveland. Qui come ovunque, chi ha in mano la macchina del partito comanda, anche se ha perso nelle urne. E qui subentra anche il secondo elemento di forza dei complottardi: l'insipienza del candidato da battere. Uomo per sua natura poco incline a rompersi la testa sui dettagli, Trump ha trascurato questo aspetto della faccenda, come anche piu' colpevolmente hanno fatto i suoi uomini. L'uno e gli altri si sono concentrati sul voto per il candidato presidente piuttosto che su quello dei candidati delegati. Due voti diversi, due esiti altrettanto diseguali. Il risultato e' che da piu' di uno stato verranno spediti a Cleveland uomini obbligati a votare Trump, ma una volta solamente. Poi saranno felicissimi di infilare nell'urna della seconda votazione un nome ben diverso. Come saranno ben contenti di lavorare contro Trump fin dal primo momento nelle commissioni in cui si articoleranno i lavori congressuali, a cominciare dalla commissione elettorale e da quella per il programma del partito. Tutto regolare, nulla glielo impedisce: il vincolo di mandato non riguarda le idee, ma solo una croce da mettere sulla scheda.
Esempio pratico: in Iowa Trump e' arrivato secondo, ed ha ottenuto sette candidati sui 30 disponibili. Sette voti sicuri solo per la prima volta. Se funziona la macchina di controllo del partito, un minuto dopo Trump avra' contro tutta la delegazione. E anche per la delegazione del South Carolina, 50 delegati su 50 tutti per Trump, i nomi e i cognomi verranno stabiliti non prima di meta' maggio, e alla fine i supporter autentici potrebbero essere molti di meno. Trump non dovrebbe lamentarsi troppo: in fondo se si fosse candidato per i democratici le cose avrebbero potuto andare anche peggio, perche' li' il vincolo di mandato non esiste nemmeno per la prima votazione. Ad ogni modo, il miliardario ha mostrato qualche preoccupazione a riguardo. Ancora qualche giorno fa ha avuto modo di dire che "ottenere il 50 percento con certi metodi non e' una cosa corretta". Gia' si prepara alla contromossa, quella di far passare gli eventuali ripensamenti come una coltellata alla schiena dell'elettorato (argomentazione non sconosciuta ad orecchie italiane, ma in America si tratta di una prima volta assoluta).
Anche perche' sa bene che, per evitare la beffa, dovra' ottenere il 52 percento dei seggi ancora in palio. Dovra' vincere tutto o quasi fin da subito, ad incominciare dal Wisconsin nei prossimi giorni, dove Cruz ha scatenato un'offensiva elettorale con pochi precedenti. Le possibilita' che quella di Cleveland sia la convention repubblicana piu' combattuta degli ultimi quarant'anni sono molto alte. Nel 1976 si scontrarono Gerald Ford e Ronald Reagan. Nessuno dei due aveva la maggioranza. Vinse Ford, ma la storia l'avrebbe scritta, di li' a qualche anno, Reagan. (AGI)