AGI - Il trentacinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino non poteva essere più amaro per la Germania. Così come la crisi di governo aperta dal cancelliere Olaf Scholz, con l'ingenuo auspicio che il ritorno di Trump avrebbe compattato la sua fragile coalizione, non poteva arrivare in un momento peggiore, segnato da una grave crisi industriale, e da divisioni tra Est e Ovest che sembrano tornare ad allargarsi. Gli errori nella gestione della riunificazione, che vide il modello dell'Rft calato dall'alto sulla Ddr con paternalismo quasi coloniale, non sono imputabili ad Angela Merkel, all'epoca ministro delle Donne e dei Giovani nel quarto governo Kohl. Ma è arduo negare che il difficile momento attraversato ora dalla prima economia europea sia in buona parte da imputare alle decisioni, o più spesso alle procrastinazioni, dell'ex cancelliera. In Germania è nato addirittura un neologismo: merkeln. Ovvero rimandare, spazzare la polvere sotto il tappeto. Questo dibattito, intensissimo e da tempo in corso sulla stampa angloamericana, inizia ora ad affacciarsi con sempre minore timidezza anche in Germania.
Dalla crisi dell'euro alla bolla immobiliare
Quando Donald Trump fu eletto alla Casa Bianca, Obama passò idealmente a Merkel lo scettro di "leader del mondo libero". Un ruolo che Merkel non voleva e non era in grado di interpretare. La difficoltà della Germania nel portare avanti un'azione politica, qualunque essa sia, è un vecchio problema che risale al dopoguerra, alla concezione di una Nato che doveva tenere i "tedeschi sotto", secondo la celebre definizione attribuita al barone Ismay, primo segretario generale dell'alleanza. Il problema diventò però di tutta la costruzione europea quando il Paese che ne è leader di fatto, sotto la guida dell'ex "ragazza dell'Est" si mostrò incapace di ragionare in termini comunitari, sottomettendo anzi le esigenze del blocco a quelle della politica economica interna. E così per evitare spinte inflazionistiche in Germania, la reazione alla crisi dei mutui aggravò il male, con la Bce impegnata in politiche procicliche che fecero esplodere la crisi della moneta unica. Mentre la Federal Reserve continuava a pompare miliardi e miliardi nel sistema garantendo agli Stati Uniti una resurrezione rapida e spettacolare, la Grecia venne sottoposta a un'austerità drastica quanto ideologica che finì di devastare quel che restava dell'economia ellenica. Il disastro avrebbe coinvolto anche l'Italia se Merkel non avesse fatto la scelta, necessaria quanto criticata in patria, di fidarsi del nuovo governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi.
Il 'quantitative easing', il vasto programma di acquisto di titoli avviato da Draghi, salvò l'Eurozona dal collasso e rimise in sesto i conti dei Paesi più indebitati ma arrivò troppo in ritardo per non creare distorsioni, che si sarebbero ripercosse proprio sulla Germania. I tedeschi, che con i tassi di interesse alti erano abituati a percepire buoni rendimenti dai propri risparmi, si ritrovarono, con il costo del denaro azzerato, a dover cambiare strategia e si buttarono in massa sul mattone. Il risultato fu una bolla immobiliare che portò alle stelle le quotazioni di un mercato che era rimasto tra i più accessibili dell'Europa occidentale. È questa una delle principali radici del forte aumento dei prezzi a cui oggi assiste il Paese, pur erodendo fino a un certo punto il potere d'acquisto di salari che restano molto elevati. Un'altra è la crisi energetica scatenata da due scelte egualmente avventate: l'eccesso di dipendenza dalle importazioni di gas russo e la decisione repentina di chiudere le centrali nucleari sull'onda dell'emozione suscitata dall'incidente di Fukushima.
L'abbraccio di Mosca
È vero che quando partì il progetto North Stream 2 nessuno avrebbe previsto l'invasione dell'Ucraina. Ma continuare ad affidarsi a un unico fornitore, una volta detto addio all'atomo, fu una scelta sbagliata per banali logiche economiche. Oggi la Germania è costretta a bruciare carbone e acquistare costoso gas liquefatto americano per tenere in piedi un'industria pesante che oggi vede traballare il comparto dell'auto, ovvero il cuore del sistema volto all'esportazione che regge l'economia del Paese. Il clamoroso piano di tagli comunicato pochi giorni fa da Volkswagen è il frutto di una politica schizofrenica che da una parte sbandierava il 'green', dall'altra non agiva di conseguenza sulla politica industriale. Il risultato è che le case automobilistiche tedesche sono arrivate impreparate e perdenti alla sfida dell'elettrificazione, il tutto a beneficio della sempre più agguerrita concorrenza cinese.
Il North Stream 2 non è solo il simbolo di un rapporto troppo stretto con Mosca, incauto col senno di poi quanto naturale per la Germania, ma anche dell'irrilevanza di Berlino sul piano internazionale. Il sabotaggio dell'infrastruttura, attribuito ad agenti ucraini, è stato un gesto senza precedenti che si può compiere solo se si conta sulla totale incapacità di reazione di chi lo subisce, un'operazione che dà la misura della considerazione politica che gode il Paese tra le cancellerie internazionali. Merkel non è stata in grado di lasciare successori credibili, mangiandosi un delfino dopo l'altro, da Annegrette Kramp-Karrenbauer ad Armin Laschet. È andata meglio a Ursula von der Leyen, approdata a Bruxelles, forse per il timore che iniziasse a fare ombra alla cancelliera, che le ha lasciato qualche difficile eredità, a partire dall'incredibile libertà di manovra guadagnata da Viktor Orban, sempre protetto da una Germania che vedeva nell'Ungheria sia un tassello indispensabile della propria politica di riavvicinamento alla Russia, sia una pedina di una più ampia partita che ha visto alcuni Paesi restare fuori dall'euro anche per poter consentire alle aziende tedesche un più agevole 'reshoring' delle attività delocalizzate in Cina.
Ovest contro Est
Più complesso il capitolo immigrazione. La scelta, anch'essa rapida e drastica, di aprire i confini all'onda di rifugiati provenienti dalla Siria e dall'Iraq è quella che oggi viene criticata in modo più aspro ma resta impressionante la facilità con cui il sistema produttivo tedesco è riuscito ad assorbire una simile quantità di persone. L'aumento dei flussi ha però fornito ai nazionalisti di Afd il pretesto principale per avviare la resa dei conti dell'Est nei confronti dell'Ovest.
I 'Wessi' e gli 'Ossi' che 35 anni fa si riabbracciarono tra le macerie del muro oggi sono più divisi che mai. Allora il citatissimo Fukuyama parlò di "fine della storia". In America forse non ci ha mai creduto davvero nessuno, in Germania ci hanno creduto fin troppo.