AGI - A meno di tre settimane dalle presidenziali, per gli americani si è aggiunto un altro motivo di stress: i sondaggi. Ogni giorno giornali, tv e siti specializzati sfornano dati, aggiornamenti sulla corsa tra i due candidati, Kamala Harris e Donald Trump. Un giorno sale uno. Quello dopo, l’altro. Ma di recente i numeri che indicano una risalita del tycoon, dopo due mesi di difficoltà, hanno gettato nel panico milioni di elettori Democratici. Eppure la storia degli ultimi quarant’anni dovrebbe aver insegnato che i sondaggi nelle ultime settimane prima del voto si sono rivelati spesso ingannevoli. Il 16 ottobre 1984, quarant’anni esatti fa, il New York Times pubblicò un sondaggio clamoroso: Ronald Reagan appariva in caduta libera rispetto al suo avversario, il Democratico Walter Mondale. A inizio ottobre il candidato Repubblicano era avanti di 13 punti, a metà mese era sceso al 9. Al voto mancavano appena due settimane. Che cosa stava succedendo? I media parlarono di “onda lunga che si è fermata”. Secondo quanto raccontava il Times, la “corsa per presidente è diventata più incerta negli undici stati più grandi, dove il vantaggio di Reagan è passato dall’11 al 7”. Due giorni dopo lo stesso quotidiano titolava: “I dibattiti hanno forse cambiato i pronostici”. Ma quando si aprirono le urne i sondaggi si rivelarono totalmente sbagliati: Reagan aveva stravinto le elezioni, conquistando la vittoria in 49 Stati. Mondale era riuscito a prendere solo lo Stato dove era nato, il Minnesota. Quella è stata l’elezione con il margine più ampio nella storia americana: 18,2 per cento a favore di Reagan, equivalente a quasi 17 milioni di voti in più. All’ex star di Hollywood andarono 525 grandi elettori. A Mondale, appena 13.
Bush vs Gore
Otto anni dopo, poco prima dell’Election Day, i sondaggi indicarono la crescita verticale del presidente in carica George W. Bush sullo sfidante, il Democratico Bill Clinton. Il 29 ottobre del ’92 Ruth Marcus sul Washington Post scriveva: “Il presidente Bush, esaltato dai sondaggi che indicano equilibrio, ha detto oggi che i sostenitori del candidato Democratico Bill Clinton sentono che la vittoria stia sfuggendo di mano. “Mi dispiace per loro”, ha aggiunto”. Bush, aveva commentato il quotidiano, era stato accompagnato in Ohio dagli attori Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger, "in questo Stato conteso, dove i 21 grandi elettori sono decisivi per la sua rielezione, e dove Bush ha preso il 55 per cento quattro anni fa, mentre adesso è dietro”. Nonostante quanto affermasse il giornale della capitale, Bush perse anche l’Ohio e per 90 mila voti. Clinton conquistò il voto popolare a livello nazionale con un +6 per cento, ma travolse Bush nei vari Stati, portando a casa 370 grandi elettori contro i 168 del suo avversario. Nel 2000 sempre il Washington Post titolò: “I ricercatori dicono che è troppo facile: vincerà Gore”. Il giornale citava i professori dell’American Political Science Association. Sei accademici sui sette interpellati dal quotidiano avevano assegnato al candidato Democratico Al Gore una vittoria tra il 52,3 e il 55,4 per cento. Il settimo avevano dichiarato che Gore avrebbe superato il 60 per cento dei consensi. In realtà Albert Gore Jr non prese il 60,3, ma perse, seppure all’ultimo voto in Florida, contro George W. Bush, figlio del presidente sconfitto da Clinton.
Bush vs Kerry
Quattro anni dopo la storia si è ripetuta, ma stavolta con gli exit poll, cioè uno strumento che va oltre gli stessi sondaggi, ma che registrano le indicazioni uscite dai seggi: nella notte elettorale i sondaggisti avevano assegnato la vittoria al senatore Democratico John Kerry. Era il 4 novembre del 2004 quando il Los Angeles Times aveva titolato: “I primi dati per Kerry si sono rivelati sbagliati”. I giornali avevano raccontato come lo staff del presidente Bush fosse rimasto deluso dai risultati degli exit polls, da cui era emersa la vittoria del suo avversario. La senatrice Repubblicana del Maine, Susan Collins, aveva commentato in una email inviata alla madre: “E’ finito tutto”. Lo stratega John Zogby, uno dei più rispettati dalla politica americana, aveva dovuto scusarsi per aver annunciato nella notte la sconfitta di Bush: “Pensavo di aver catturato un trend, ma quel risultato non si è concretizzato”.
Obama vs McCain
Un mese prima delle elezioni presidenziali del 2008, l’emittente radiofonica pubblica Npr aveva pubblicato un sondaggio relativo a 14 Stati chiave, e che mostravano come la corsa tra Barack Obama e John McCain fosse in parità. “Ad agosto - aveva spiegato Npr - Obama guidava i 14 Stati di tre punti, ora è McCain avanti di due. Lo scenario è cambiato molto”. Poche settimane dopo Obama avrebbe battuto McCain, dominando il voto popolare con un più 7 per cento e stravincendo quello dei collegi elettorali: alla fine il candidato Democratico aveva conquistato 365 grandi elettori contro i 173 del suo avversario.
Obama vs Romney
Quattro anni dopo era successa la stessa cosa. A ottobre, poco prima dell’Election Day, i sondaggi avevano indicato in Mitt Romney il favorito su Obama. “Romney - scrivevano i sondaggisti - ha raggiunto Obama nella corsa presidenziale - 46 a 46 tra gli elettori registrati - dopo essere stato indietro di 9 punti, 42 a 51 a settembre”. “Tra i probabili votanti - continuava l’analisi - Romney mantiene un leggero vantaggio ,49 a 45, su Obama. Lo scorso mese era indietro di otto punti”. Poche settimane dopo Obama sconfisse Romney di 4 punti nel voto popolare, e dominò quello dei collegi: alla fine conquistò 332 grandi elettori contro 206.
Trump vs Clinton
Otto anni fa, il 18 ottobre, il New York Times pubblicò una previsione che resterà nella storia delle presidenziali americane: “Hillary Clinton ha il 91 per cento di possibilità di vincere”. A Donald Trump era stato assegnato un misero 9 per cento, che non lasciava speranze. Poi sappiamo come è andata: Clinton vinse sì il voto popolare, quasi tre milioni di voti in più del suo avversario, ma perse nettamente la corsa negli Stati. A Trump andarono 304 grandi elettori, alla sua avversaria 227. Persino nelle elezioni di midterm i pronostici si sono rivelati ingannevoli: nel 2022 tutti i media avevano previsto un'“onda rossa”, il colore dei Repubblicani, pronta a spazzare via i Democratici dal Congresso. Poche persone, tra cui il regista e attivista Michael Moore, aveva previsto il contrario: i liberal ridussero al minimo la sconfitta alla Camera e portarono a casa la maggioranza al Senato. Il New York Times, uno di quelli che aveva disegnato scenari catastrofici per i Democratici, dovette scrivere un articolo in cui ammetteva come i sondaggi avessero fatto deragliare tutte le previsioni. Succederà anche stavolta? La risposta il 6 novembre, il giorno dopo la notte americana più importante dell’anno.