AGI - Trentacinque anni fa, l’esercito di liberazione popolare cinese aprì il fuoco contro i manifestanti, per lo più studenti, che protestavano in piazza Tiananmen, nel cuore di Pechino. Il numero delle vittime di quello passato alla storia come il Massacro di Tiananmen varia ancora. E nella storia, non solo quella cinese ma anche la nostra, il 1989 segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. “Quell’anno, con i fatti cinesi prima e la caduta del muro di Berlino dopo, il mondo è cambiato”, spiega ad AGI Federico Masini, professore di lingua e letteratura cinese all’università Sapienza di Roma e tra i massimi sinologi italiani. "Nella primavera del 1989 arrivò a Pechino Gorbaciov segnando il ravvicinamento tra l’Unione sovietica e la Cina. Qualche mese dopo il crollo del muro di Berlino sarebbe stato un monito per Pechino per capire da che parte andare, se seguire l’esempio dell’Unione sovietica o provare a costruirne un’altra via. La Cina ha deciso di proseguire su una strada tutta sua. E a noi resta il compito di provare a capirla”.
L'interruzione delle relazioni
A partire dai fatti di quel 4 giugno del 1989, ultimo atto di mesi di proteste e manifestazioni con richieste da parte degli studenti di partecipazione politica, maggiore democrazia e aperture. “Deng Xiaoping, ormai quasi in pensione, ritenne necessario rimettere ordine negli eventi che si stavano susseguendo in quelle settimane perché, secondo la tradizione cinese, dal caos non viene mai nulla di buono e la soluzione arriva sempre dalla stabilità. Da noi il disordine è rivoluzionario (pensiamo alla Rivoluzione francese), ma per i cinesi non introduce una nuova situazione positiva che invece può nascere solo da una transizione, tanto lenta quanto incisiva”, osserva Masini. “Per la leadership cinese in quel momento era necessario evitare lo scossone, sgomberando la piazza e interrompendo le relazioni con il mondo esterno”. Di fatto, racconta il sinologo che visse in prima persona i disordini del 1989, “dopo il 4 giugno il ministero degli Esteri si autosospese. Pechino era consapevole che questo evento avrebbe interrotto le relazioni e che, in un secondo momento, avrebbe dovuto riallacciare i rapporti da zero. E così fu: i mesi dopo Tiananmen furono di assoluto silenzio diplomatico. Nessun Paese volle riattivare i canali diplomatici e servirono diversi mesi prima che qualcosa si muovesse”.Di fatto, racconta il sinologo che visse in prima persona i disordini del 1989, “dopo il 4 giugno il ministero degli Esteri si autosospese. Pechino era consapevole che questo evento avrebbe interrotto le relazioni e che, in un secondo momento, avrebbe dovuto riallacciare i rapporti da zero. E così fu: i mesi dopo Tiananmen furono di assoluto silenzio diplomatico. Nessun Paese volle riattivare i canali diplomatici e servirono diversi mesi prima che qualcosa si muovesse”.
La visita di Andreotti
L’Italia ebbe un ruolo importante in quel momento: “Giulio Andreotti fu il primo ministro degli Esteri europeo a tornare in Cina dopo i fatti di Tiananmen. Non era nuovo a questi tentativi oltrecortina, lo aveva già fatto in altre occasione e questa volta lo fece con la Cina”.
“In quell’occasione – ricorda Masini - lo accompagnai giorno per giorno. I cinesi considerarono quella visita molto importante e lo accolsero con un calore che raramente si era visto nei confronti di un ministro degli Esteri occidentale. Fu un momento molto emozionante nella storia delle relazioni tra i nostri Paesi”.
Andreotti, prosegue il professore, “sollevò questioni sui fatti di Tiananmen e i cinesi non dissero nulla che già non avessero detto: c’era stata una crisi interna, risolta nell’interesse dell’unità nazionale. E questa è stata la versione ufficiale per diversi decenni, prima del silenzio attuale. Ma Andreotti era un personaggio che raramente taceva nei confronti degli interlocutori ed era scaltro a porre anche i temi più sensibili in maniera delicata”.
Fu in quel momento che “i cinesi capirono che dovevano essere ancora più incisivi sulla scena internazionale. Finì l’era della politica estera di Zhou Enlai (che si basava per lo più su rapporti bilaterali). Negli anni ’90 e subito dopo la Cina si affacciò negli organismi multipolari puntando ad aumentare la sua statura diplomatica”.
Cosa resta di quel tragico 4 giugno?
“I fatti furono drammatici ma i 35 anni successivi sono stati il periodo più lungo di stabilità politica e di sviluppo economico dell’ultimo secolo, dall’impero cinese fino a oggi. I primi decenni della Repubblica popolare e tutto il periodo maoista sono stati segnati da grandi tumulti e sofferenza. Col senno di poi l’89 segna per la Cina l’inizio di un’inarrestabile crescita economica. E questo è un dato incontrovertibile. E’ indubbio che le condizioni dei cinesi siano migliorate in maniera straordinaria”.
Per Pechino la nuova sfida si gioca a livello internazionale. “E’ su questo che si dibatte oggi nelle stanze del potere”, spiega Masini. “Che rapporto avere con la Russia, con i Paesi asiatici, nel conflitto israelo-palestinese, in quello ucraino. La Cina è in grado di svolgere un ruolo positivo? Di fare un cambio di passo? La stabilità cinese è basata sulla crescita economica, la prosperità, termine che a noi sembra un concetto vuoto. Il ruolo internazionale di Pechino all’estero è o no funzionale alla crescita economica? In base a quello si prendono le decisioni. A oggi non ha ancora un ruolo decisivo. Potrebbe averlo, ma ha paura di esporsi troppo. Si sta muovendo, ma resta cauta nei confronti della Russia, cercando di non scontentare i partner commerciali”. Ma resta un punto fermo: “Se l’obiettivo è la stabilità economica, le guerre negli altri Paesi non fanno bene al commercio. E questo Pechino lo sa bene”.
L'isola ribelle
Intanto si susseguono le dimostrazioni di forza della Cina nei confronti di Taiwan. “La politica cinese su Taiwan non è mai cambiata”, ricorda Masini. “I cinesi sono stati così accorti da far firmare a tutti i Paesi, Italia compresa, un accordo per la creazione delle relazioni diplomatiche. I nostri Paesi hanno sottoscritto che Taiwan fa parte della Repubblica popolare cinese. In punta di diritto non avremmo modo di intervenire sulla situazione. Ma questo è il diritto, e la realtà è un’altra: Taiwan è cresciuta ed è diventata il più grande produttore di semiconduttori”.
In questo momento, prosegue il sinologo, “l’unico interesse di Pechino è impedire che la situazione cambi. Qualunque cambiamento dello status quo sarebbe disastroso per la Cina e per Taiwan. Pechino mira, anche con le sue dimostrazioni molto forti, a garantire che nulla cambi, perché se qualcosa di muove la Cina deve intervenire. I cinesi non avrebbero nessuna difficoltà a procedere a un’occupazione di Taiwan, ma soltanto dopo che questo equilibrio sia stato rotto da qualcun altro. Loro non hanno alcun interesse a farla cambiare. Ricordano così al mondo che la situazione di Taiwan non può essere trattata come quella di altri Paesi sovrani in rotta di collisione, perché così non è. E non lo è nemmeno per le Nazioni Unite che non hanno un seggio per Taipei, così come non lo è per tutti i Paesi che hanno stabilito relazioni diplomatiche con la Cina”.