AGI - L'accusa di non aver agito per la popolazione palestinese è uno dei fattori che hanno determinato il tracollo del partito Akp, al potere in Turchia da 20 anni. Eppure negli ultimi mesi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha lesinato attacchi verbali e accuse nei confronti del governo israeliano per la dura offensiva contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza. Erdogan ha più volte definito il premier israeliano Benjamin Netanyahu un carnefice alla stregua di Hitler, Mussolini e Stalin, ripetutamente accusato il governo israeliano di crimini contro l'umanità e sostenuto la causa per genocidio intentata dal Sud Africa presso la corte di Giustizia Internazionale dell'Aja.
Oltre ad aver accolto malati e feriti di Gaza e inviato aiuti più di ogni altro Paese, il governo turco ha offerto la propria disponibilità ad agire da garante per la creazione di uno stato palestinese, ospitato leader di Hamas e richiamato in patria l'ambasciatore a Tel Aviv, nominato appena un anno prima. Eppure una larga fetta della popolazione turca accusa Erdogan di non aver fatto abbastanza, di non aver agito in maniera concreta o di aver "svenduto i palestinesi in cambio dei soldi israeliani". Un'accusa che stavolta non arriva da partiti o movimenti di opposizione, ma dalla base stessa del partito Akp, che Erdogan negli anni ha forgiato a propria immagine e somiglianza.
Le critiche hanno finito con il produrre pesanti conseguenze nelle recenti elezioni amministrative, dove l'Akp ha perso non solo lo scettro di prima forza politica del Paese, ma anche roccaforti in cui ha governato negli ultimi due decenni. Dove si è confermato, il partito di Erdogan ha comunque fatto registrare un calo consistente. Un esempio in questo senso è la città di Erzurum, uno dei centri più importanti del nord est del Paese dove il consenso di Erdogan è sempre stato saldo. Erzurum negli ultimi mesi è stata tappezzata di striscioni contro l'attacco israeliano, sit in di solidarietà e gazebo per raccogliere aiuti per la popolazione di Gaza. L'Akp ha confermato il proprio controllo sulla città, ma perso il 13% in 5 anni. Stessa cosa a Sakarya, altra roccaforte dove Akp si è confermato, ma dove i punti persi sono stati 18 rispetto al 2019.
Proprio a Sakarya, durante il comizio previsto nell'ambito del tour elettorale del presidente, uno striscione è comparso tra la folla per chiedere di porre fine "del commercio senza vergogna con Israele". Allo striscione, poi rimosso, Erdogan non ha reagito, ma essere contestato a un proprio evento costituisce un fatto senza precedenti per il leader turco. Nelle elezioni amministrative dello scorso 31 marzo ha fatto scalpore la crescita del partito islamico conservatore Yeniden Refah. Quest'ultimo è stato capace in 10 mesi di andare oltre il doppio dei consensi precedentemente ottenuti e conquistare tre distretti, tra cui Urfa, importante provincia al confine con la Siria da anni territorio sotto controllo dell'Akp.
Un boom di consenso da tenere sotto osservazione nel prossimo futuro, che trova le propria fondamenta proprio nella perdita di consenso dell'Akp e nella campagna elettorale incentrata sulla "vergogna" e le accuse di inefficacia nel far sentire la voce della Turchia contro Israele. Di certo per capire il crollo di Erdogan bisogna tenere in considerazione i problemi economici del Paese, l'aumento inarrestabile dell'inflazione, la perdita di poter d'acquisto di pensioni e salari minimi, ma è innegabile che la reazione, giudicata 'insufficiente', nei confronti delle operazioni israeliane a Gaza sia stata un fattore. A rendere l'idea uno spot elettorale di Yeniden Refah lanciato su internet in cui un voto per l'Akp si trasformava nel timbro di una bandiera israeliana.
Fattore ammesso da Erdogan dinanzi ai suoi con un perentorio "abbiamo pagato il prezzo di aver fallito nel far valere la nostra posizione". A rendere l'idea del paradosso il commento del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, che ha dichiarato che la sconfitta di Erdogan è una "punizione per gli attacchi ad Israele". A Erdogan si imputa di non aver inflitto sanzioni economiche. Una strada che la Turchia in realtà evita di percorrere, così come avvenuto per la Russia, una scelta che però stavolta ha avuto un prezzo da pagare. Eppure, come riportato da dati del ministero dell'Economia e confermato da osservatori non allineati con il governo turco, a partire dal 7 ottobre a oggi il commercio tra Turchia e Israele è crollato del 33%.
Ankara ha negato che governo e istituzioni abbiano concluso accordi con lo Stato ebraico. Dati non sufficienti a controbattere al tam tam dei social, dove per esempio sono comparse foto di una fornitura di 21 tonnellate di acido borico in polvere a una compagnia israeliana, la Fertilizers & Chemical Ltd, che produce sostanze chimiche. Un tweet cui nessuno ha risposto e che ha creato scandalo presso un'opinione pubblica compattamente filo-palestinese. Le accuse di affari con lo Stato ebraico hanno favorito una emorragia di voti pesante presso l'elettorato più conservatore del centro est dell'Anatolia. Erdogan dovrà rispondere a queste accuse, cercare di rendere più incisiva la politica turca nei confronti di Gaza e mettere sotto la lente di ingrandimento gli affari tra Turchia e Israele. Mosse necessarie per evitare che la perdita di consenso continui presso i conservatori e religiosi, fino a oggi la base del potere di Erdogan.