AGI - Sono trascorsi 45 anni dalla proclamazione della Repubblica Islamica in Iran. L'anniversario, oltre che dalle celebrazioni volute dal regime, che ha radunato in piazza centinaia di migliaia e sfoggiato in parata le nuove armi dei Guardiani della Rivoluzione, è stato caratterizzato da canti notturni, che hanno segnato la notte della capitale Teheran al grido di "Morte al dittatore". Numerosissimi video hanno fatto il giro del web mostrando che in diversi quartieri della capitale la gente ha accompagnato i fuochi d'artificio che ogni anno il 22 Bahman (11 febbraio) ricordano la fine della dinastia degli Shah Pahlavi, lanciando slogan contro il regime degli ayatollah.
Ironia della sorte inneggiare alla morte del dittatore è un'eredità della Rivoluzione Islamica del 1979. "Morte al dittatore" era infatti lo slogan cantato 45 anni fa dalla gente che non poteva scendere in strada, bloccata e spaventata da legge marziale e coprifuoco decisi dallo Shah. Il collasso dei Pahlavi diede il via all'ascesa al potere dell'ayatollah Ruhollah Khomeini, fino ad allora in esilio a Parigi. Il rientro di Khomeini segnò però la fine della vita in Iran per tantissimi, comunisti, socialisti, laici, accademici, che abbandonarono il Paese per non farvi più ritorno. Il dramma di coloro che furono costretti a lasciare per sempre il Paese è però oggi in secondo piano rispetto al dramma di chi, pur non avendoci mai creduto, si trova a vivere sotto il regime degli ayatollah.
I giovani contro Khamenei
La morte di Khomeini nel 1989 ha segnato l'ascesa al potere dell'ayattollah Ali Khamenei, la cui linea politica non ha fatto altro che rendere più profonda la crepa con la maggior parte della popolazione. I giovani in particolare considerano la Repubblica Islamica e l'ideologia al potere un ostacolo insormontabile per realizzarsi. Una fetta enorme della popolazione di un Paese che ha un'età media di appena 33 anni, che odia il regime sia per ragioni politiche che personali. Un esempio sono le università pubbliche, di facile accesso e buon livello, dove però per ottenere copia del diploma di laurea, per andare all'estero, servono 10 mila dollari. Una cifra inaccessibile che costituisce una gabbia per i tanti che non vedono un futuro nel Paese in cui sono nati.
Per gran parte della popolazione la Repubblica Islamica è semplicemente finita, non merita nessuna attenzione e le parole del regime cadono nel vuoto, cosi' come questo e i precedenti anniversari. Per tantissimi iraniani non c'è nulla da festeggiare e i canti della notte lo hanno confermato. Solo un anno fa il Paese era attraversato dai moti di protesta seguiti la morte di Mahsa Amini, la giovane deceduta mentre era in custodia della polizia religiosa con l'accusa di non aver indossato il velo in maniera inappropriata.
Quest'anno la protesta è stata limitata ai canti, non sono stati lanciati appelli a scendere in strada e contestare il regime. Da un lato la disillusione della gente, dall'altro la consapevolezza che la protesta porterebbe inevitabilmente a una repressione violenta da parte dei pasdaran. La gente in Iran non crede più negli ayatollah e la principale accusa riguarda non solo la durissima repressione del dissenso politico e i bagni di sangue che seguono le proteste in strada, ma anche l'utilizzo del denaro pubblico in un Paese stritolato dalla crisi economica. Invece che utilizzare i proventi della vendita di idrocarburi per migliorare la condizione della gente, il regime si è intestardito su un programma nucleare dallo scopo mai chiarito e sulla produzione di armamenti. Una scelta che ha finito con l'isolare il Paese e destabilizzare l'intera area. Strategie che hanno creato problemi soprattutto con gli Stati Uniti. L'anniversario della Repubblica Islamica è stato ricordato dall'inviato speciale della Casa Bianca, Abram Paley, come "il giorno in cui è nato un regime basato sulla paura, sulla violenza e sulla repressione". Proprio la linea Usa nei confronti di Teheran costituisce un argomento sempre caldo nella politica americana.
Biden troppo 'soft'
Repubblicani, dissidenti e oppositori del presidente americano Joe Biden rimproverano all'inquilino della Casa Bianca di mantenere un approccio troppo 'soft' nei confronti di Teheran. Critiche che si sono fatte più pesanti in seguito agli attacchi subiti dalle truppe americane in Iraq e Giordania da parte di milizie filo iraniane nelle ultime settimane. Biden ha fallito nell'intento, dichiarato, di far ripartire il negoziato sul nucleare firmato dall'amministrazione di Barack Obama nel 2015 e fatto saltare poi da Donald Trump. Lo stesso presidente Usa ha sbloccato miliardi di dollari di fondi iraniani bloccati in Sud Corea (6 mld) e Iraq (11mld) per ottenere la liberazione di cinque cittadini irano-americani. Una strategia che ha procurato a Biden numerose critiche. Di tutt'altro tenore il messaggio giunto da Mosca, da dove la portavoce del ministro degli Esteri, Maria Zakharova, ha ricordato la lotta congiunta di Russia e Iran per stabilire un nuovo e più equo ordine mondiale. Il messaggio di Mosca non costituisce una sorpresa, anche perchè Teheran ha fornito alla Russia droni e razzi da usare nell'invasione dell'Ucraina.
Sicuramente più sorprendenti sono stati gli auguri giunti dal re dell'Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz. Riyad è il nemico storico di Teheran, con cui è però da un anno in corso un processo di normalizzazione. Un riavvicinamento che potrebbe avere sviluppi interessanti alla luce della situazione in Medio Oriente e della guerra a Gaza. Nel discorso di ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha chiesto l'espulsione di Israele dall'Onu e reiterato l'appello a uno stop immediato dei bombardamenti sulla Striscia.
Dall'inizio del conflitto in Medio Oriente da Teheran sono piovute solo minacce nei confronti di Israele e Usa, mentre gli alleati nella regione, gli Hezbollah libanesi, gli Houthi yemeniti e le milizie attive in Iraq e Siria, hanno aumentato l'intensità degli attacchi verso obiettivi americani e israeliani. L'Iran rimane uno dei principali sostenitori di Hamas e principale rappresentante del cosiddetto "Asse del male" che si oppone a Israele. Una linea dura che ha fatto più volte temere l'escalation del conflitto. Un'eventualità remota, a 45 anni dalla sua nascita regime degli ayatollah è già messo alla prova da una cronica crisi economica, traballa a ogni ondata di protesta, come accaduto lo scorso anno, ma resiste alle pressioni e continua a sopravvivere.
E proprio la sopravvivenza del regime, ad ogni costo, rimane la priorità della Guida Suprema Ali Khamenei. Gli ayatollah sanno che una guerra avrebbe conseguenze disastrose e preferiscono lanciare anatemi e minacce piuttosto che andare incontro a una sonora sconfitta militare. A 45 anni dalla sua nascita tanti sono i punti interrogativi sul futuro della Repubblica Islamica e tra questi vi è anche l'età avanzata di Khamenei, che di anni ne ha ormai 84. La Guida Suprema negli ultimi anni ha lavorato alla successione, cercando di favorire candidati provenienti da correnti a lui vicine e consolidando il controllo della presidenza, del parlamento e del sistema giudiziario. Khamenei punta a una successione in linea con la propria politica e ideologia senza spargimenti di sangue. Una transizione 'soft' per non scatenare il malcontento dell'opinione pubblica per la sopravvivenza del Recobe. Sopravvivenza che una eventuale guerra con gli Usa e Israele renderebbe impossibile.