AGI - I bombardamenti su Gaza, la crescente violenza in Cisgiordania, la chiusura delle aree di preghiera a Gerusalemme stanno facendo vacillare il fragile equilibrio tra Israele e i Paesi islamici e rischiano di creare un'ondata di violenza incontrollata in tutto il Medio Oriente. Le operazioni militari israeliane che vanno avanti, la sempre più pesante crisi umanitaria che affligge i civili stanno contribuendo a portare la tensione al massimo e far saltare la cautela mostrata fino ad ora da diversi attori di cui si poteva temere la reazione.
Tra questi l'Iran, gli hezbollah libanesi, Egitto e l'Arabia Saudita, che al momento hanno protestato e accusato Israele, ma assunto un atteggiamento attendista. A livello diplomatico va registrata la nuova rottura con la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan. Quest'ultimo continua a chiedere che il governo israeliano risponda dinanzi la Corte penale internazionale per i crimini commessi e non ha intenzione di placare l'offensiva diplomatica turca.
Altra conseguenza è stata il congelamento degli 'Accordi di Abramo', che puntano a ottenere il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Paesi come gli Emirati Arabi, il Bahrein, il Marocco, il Sudan e, sopratutto, l'Arabia Saudita. Un passo storico finito su un binario morto a causa del conflitto in corso. La tensione sempre più alta mina sopratutto il fragile equilibrio attuale, che potrebbe crollare da un momento all'altro.
Il lancio di razzi tra il sud del Libano e Israele continua, le basi americane in Iraq e Siria sono finite ripetutamente sotto attacco, gli Huthi yemeniti minacciano la sicurezza di Israele e del Mar Rosso, milioni di civili di Gaza premono ai confini con l'Egitto e Giordania sono tutti fattori che tengono appeso a un filo l'attuale equilibrio. Iran L'Iran è stato il primo Paese a finire sul banco degli imputati in seguito agli attacchi sferrati da Hamas ad Israele lo scorso 7 ottobre.
Nonostante i festeggiamenti andati in scena in alcune città del Paese, il regime degli ayatollah si è affrettato a negare qualsiasi coinvolgimento. Circostanza confermata anche dai leader di Hamas, che a Teheran hanno sempre trovato un porto sicuro. È tuttavia innegabile che il coinvolgimento iraniano sia gradualmente sparito dalla retorica aggressiva della politica israeliana; allo stesso tempo la Repubblica Islamica si è limitata a qualche minaccia e diversi proclami, defilandosi di fatto dal contesto politico.
La tregua, lo scambio di ostaggi, la possibilità di trattative, non passano da Teheran. Limitati sono stati anche gli effetti degli alleati dell'Iran nella regione. Solo gli Huthi yemeniti, sciiti e vicini alla Repubblica Islamica, stanno agitando le acque del Mar Rosso. Al contrario le milizie sciite in Siria sono state annichilite dai missili americani e gli Hezbollah libanesi non sono andati oltre qualche lancio incrociato di razzi con le postazioni militari schierate al confine.
Il regime degli ayatollah è reduce dall'ondata di proteste anti-hijab seguita la morte della giovane Mahsa Amini e deve fare i conti con una pesante crisi economica. Lungi dall'avere una parte attiva, il governo iraniano guarda con interesse alla caduta di popolarità di Israele presso l'opinione pubblica internazionale.
In Libano una eventuale escalation non è nelle mani del fragile governo di Beirut, ma degli sciiti alleati di Teheran. Una minaccia che Israele non è disposto a sottovalutare: sono circa 80 mila i civili evacuati dal nord di Israele, ma sopratutto 200 mila i soldati che lo Stato ebraico ha schierato presso un confine dove la tensione non era così alta dal 2006.
Al momento circa 150 persone hanno perso la vita nei reciproci lanci di razzi, la maggior parte uomini di Hezbollah, ma anche civili e alcuni giornalisti. Hezbollah, messo sotto pressione da Turchia e altri attori regionali, ha assunto una posizione attendista, moderando azioni di disturbo e contrattacchi nei confronti di Israele.
Il leader sciita Hassan Nasrallah ha messo Israele sotto pressione e costretto l'esercito dello stato ebraico a dividere le proprie forze. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha più volte minacciato di colpire e "distruggere il Libano" se Hezbollah dovesse dichiarare guerra a Israele. Scenario al momento improbabile, ma la situazione ha tutti gli elementi per costituire un nuovo fronte di guerra in futuro, quando le operazioni contro Hamas giungeranno al termine.
Yemen e tensione nel Mar Rosso Sulla scena hanno fatto irruzione un po' a sorpresa gli Huthi yemeniti, i cui razzi e droni hanno fatto salire alle stelle la tensione nel Mar Rosso. Gli Huthi hanno dichiarato che gli attacchi verso le navi in entrata e uscita dal Mar Rosso "andranno avanti", anche se gli Stati Uniti hanno formato una task force navale di 20 Paesi la cui missione è contrastare gli miliziani e riportare la sicurezza nell'area.
Gli Huthi dello Yemen, movimento sciita che controlla parte del Paese con il sostegno dell'Iran, da cui ha ereditato tecnologie militari, hanno moltiplicato lanci di razzi e incursioni nello stretto di Bab el Mandeb, che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden. Un passaggio obbligato tra Asia e Africa che nel punto più stretto misura appena 32 chilometri, una rotta importante nel mercato dell'energia e per il commercio dell'area, da cui transitano circa 33 mila navi all'anno.
La strategia degli Huthi ha messo anche a serio rischio la città israeliana di Eilat e gli insediamenti situati sulle coste del Mar Rosso. Negli ultimi giorni i sistemi di difesa israeliani e statunitensi hanno attivato un protocollo di massima allerta e sventato la minaccia di razzi e droni. Da vedere cosa succederà con l'entrata in scena della task force navale voluta dagli Usa, una iniziativa che non ha riscontrato il sostegno del mondo islamico e ha scatenato le minacce di Teheran, che ha annunciato di avere un contingente di 55 mila marinai pronti a intervenire. Egitto e Giordania temono più di tutto che la crisi umanitaria in corso si traduca in un'ondata migratoria.
I due Paesi in passato hanno concluso accordi e collaborato con Israele, tuttavia la violenza dell'intervento su Gaza lascia intendere che lo stato ebraico punti a una pulizia etnica della Striscia, spingendo i civili oltre confine. Un circostanza che ha fatto salire la tensione, sia Egitto che Giordania hanno più volte messo in guardia dal rischio che il conflitto in corso vada fuori controllo e non accetteranno che i civili palestinesi vengano fatti ammassare ai propri confini dai bombardamenti.
La Turchia
Quando lo scorso 7 ottobre Hamas ha attaccato Israele i rapporti tra Ankara e lo Stato ebraico erano appena tornati alla normalità dopo 10 anni di gelo cui è seguito un processo di normalizzazione durato due anni. Una circostanza che ha inizialmente spinto alla cautela Erdogan nelle prime settimane del conflitto.
Dopo il bombardamento dell'ospedale Al Ahly di Gaza il presidente turco ha cambiato registro e iniziato ad accusare Israele di genocidio. Erdogan ha dichiarato di non voler rompere i rapporti con lo Stato ebraico e indirizzato le proprie invettive al governo e al premier Netanyahu. Va tuttavia ricordato che i rispettivi ambasciatori, nominati un anno prima dopo anni di vuoto, sono 'momentaneamentè stati richiamati in patria e che i piani di sviluppo energetico che i due Paesi hanno interesse a realizzare sono stati congelati.
Erdogan, che ospita in Turchia i leader in esilio di Hamas, insiste per una soluzione politica che porti alla creazione di uno Stato palestinese nei confini del 1967. Un risultato cui giungere attraverso un sistema basato sul ruolo di Paesi terzi garanti. Allo stesso tempo il presidente turco, accusato in Patria da opposizione e opinione pubblica di non ottenere risultati, è riuscito a far evacuare più di 200 malati di Gaza in Turchia, continua a inviare aiuti, accusa Israele di genocidio e insiste perchè Netanyahu venga processato per crimini di guerra.