AGI - Il 7 ottobre 2023 non è stato solo il giorno in cui 1.200 israeliani sono stati massacrati nel più sanguinoso attacco della storia dello Stato ebraico, ma anche quello in cui centinaia di donne sono state brutalmente violentate con una crudeltà inaudita. Non si può dire che la cosa sia rimasta nascosta: quello stesso giorno, gli stupratori si sono presi la briga di filmare i loro crimini con i telefoni delle vittime per inviare gli orrori compiuti ai loro contatti e parenti. Ma perché allora la comunità internazionale non si è affrettata a condannare quanto accaduto come crimine di guerra, che le convenzioni di Ginevra accostano a quello di genocidio?
La storica israeliana Tamar Herzig, a Roma per ricevere il premio Fiuggi Storia Europa 2023, è stata fra le prime a denunciare l’”assordante silenzio” del mondo sulle crudeli violenze subite dalle donne israeliane il 7 ottobre. Ne ha parlato con l’AGI.
Professoressa Herzig, perché non ci sono dati precisi su quante donne hanno subito violenze in quel tragico giorno? Si conosce solo la stima dei morti, 1.200.
“Sappiamo soltanto il numero di quanti sono stati massacrati, ma anche questo non è sicuro: ogni giorno scopriamo di qualcuno che si riteneva ostaggio e in realtà è stato ucciso. Anche quel numero non è preciso.
Quello delle violenze sessuali non è stimabile: quasi tutte le donne che sono morte quel giorno hanno subito violenze sessuali, torture e brutali mutilazioni prima e dopo la morte, sia quelle che si trovavano nei Kibbutz che quelle che partecipavano al Rave. A queste si devono aggiungere le sopravvissute per le quali la priorità è tornare a vivere dopo un trauma tanto terribile: anche chi si occupa della loro salute non parla, e il loro numero non è pertanto calcolabile”.
Sono passati quasi due mesi e mezzo da quel giorno, che cosa si sta facendo per superare il trauma?
“Negli ultimi giorni c’è stata una discussione al Parlamento israeliano sui finanziamenti al sostegno psicologico delle sopravvissute, che hanno subito violenze in prima persona o indirettamente, come testimoni di cose orribili, insostenibili per la mente umana. Da allora ci sono molti tentativi di suicidio fra i sopravvissuti in generale e fra le donne in particolare. Mancano gli psicologi e gli psichiatri per aiutare tante persone traumatizzate: Israele è un piccolo Paese, più piccolo della Toscana, abituato a guerre e attentati terroristici ma non a questo altissimo numero di persone traumatizzate.
Le più a rischio suicidio sono proprio le giovani ragazze che si trovavano al rave e sono sopravvissute: Per loro la vita à molto difficile. Ma gli stupri sono stati fatti anche nei kibbutz. Sui cadaveri mutilati c’erano tracce di sperma, sangue fra le gambe, le donne erano nude dalla vita in giù, eccetera. Ma in questo caso le sopravvissute hanno attorno una comunità e un sostegno collettivo, mentre per le giovani della festa è ancora più dura.
Oltretutto è passato troppo poco tempo perché le vittime possano parlare: non tutte hanno cercato aiuto e anche quelle che ne hanno avuto bisogno perché ferite anche gravemente sono state protette dal personale sanitario, e quindi non hanno testimoniato”
La campagna per sensibilizzare il mondo su quanto accaduto, che ha fatto ricorso a testimonial come la modella Moran Atias e la supermanager americana Sheryl Sandberg con hashtag come #BelieveIsraeliWomen e #MeToo_Unless-UR-a_Jew non è quindi partita dalle vittime?
“Ci sono ancora 15 donne e ragazze trattenute a Gaza che sicuramente stanno ancora subendo questi tormenti. La cosa più importante e più urgente è farle rilasciare. Le donne che sono state liberate due settimane fa hanno raccontato che le violenze sono in corso anche durante la prigionia a Gaza. Sappiamo che queste cose continuano a succedere, le testimonianze parlano di questo: non solo quelle delle donne ma anche degli adolescenti.
Tra l’altro alcuni di loro sono stati costretti a guardare i film degli orrori e degli stupri del 7 ottobre: è una delle forme di terrore psicologico utilizzate dai terroristi, che hanno forzato anche i bambini a guardare queste immagini. E sta continuando. Pensiamo a quelle donne e ragazze che sono prigioniere da ormai 73 giorni e dopo avere visto bruciare la loro casa, morire i loro cari, continuano a dover subire tutto questo. La campagna è quindi innanzitutto sull’urgenza che siano liberate”.
Lei ha scritto che nella storia del conflitto israelo-palestinese lo stupro non era una pratica come succede in tutte le guerre, si tratta quindi di un cambiamento storico?
“Sono una storica, sono più a mio agio parlando del passato che del presente. Ci sono stati casi di stupro abbastanza rari: uno molto grave risale al 1949, quando un gruppo di soldati israeliani ha abusato di una ragazza beduina e poi l’hanno uccisa. E’ stato un caso terribile, per il quale i soldati sono stati processati e puniti, anche se nessuna punizione è mai sufficiente per una cosa tanto grave.
Ci sono stati altri episodi singoli, di ragazze ebree violentate da arabi – non si chiamavano ancora palestinesi – ad Haifa per esempio, prima e dopo la creazione dello Stato ebraico. Anche nel 2019 si è verificato un caso molto noto di una ragazza israeliana violentata da un palestinese. Ma si trattava di vendette, la definizione esatta è “stupro opportunistico”, fatto da singoli uomini, e non rientrano nel conflitto militare e politico.
Il 7 ottobre, per la prima volta è stata usata la violenza sessuale come arma di guerra, per creare un terrore psicologico molto forte sulla popolazione ebraica, deumanizzare le vittime in un modo mai successo prima in questo conflitto storico. Non è preciso dire che prima non c’erano stupri, ma sicuramente non di massa e con questi numeri, di gruppo, con violenze e crudeltà insostenibili, mutilazioni, colpi di arma da fuoco nelle parti intime e sul seno.
Anche a livello simbolico, si voleva trasmettere un messaggio alla popolazione ebraica di Israele: gli assassini di Hamas non erano venuti solo per distruggere le vittime, ma anche la possibilità di procreare future generazioni di ebrei israeliani”.
Che cosa cambia rispetto al passato?
“Si è raggiunto un ulteriore livello, molto grave, lo avevamo visto prima nel conflitto in Bosnia: i carnefici hanno filmato gli stupri e tutte le violenze che hanno compiute mandando subito i video, con i cellulari delle vittime massacrate, ai loro parenti e amici, aumentando così il numero delle vittime, creandone una seconda linea”.
Dalla sua denuncia e dall’inizio della campagna di sensibilizzazione è cambiato qualcosa?
“Purtroppo ancora molto poco. In Italia, per esempio, e questo mi dispiace molto, non se ne parla abbastanza e se si dice qualcosa subito la risposta è ‘d’accordo, ma la reazione di Israele è troppo grave’. È una discussione diversa. È vero che Israele sta uccidendo, ma anche lo stupro è definito ‘slow murder’, omicidio lento. La violenza sessuale non faceva parte di questo conflitto, ma era invece parte di quello dell’Isis e di Boko Haram e di altre organizzazioni islamiche fondamentaliste il cui scopo è non solo distruggere Israele ma anche i valori occidentali.
È una guerra anche sui diritti delle donne, che si fa sui corpi delle donne e sui valori democratici dell’Occidente. Per questo ci aspettavamo una reazione da parte dei movimenti femministi, l’appello a rilasciare le nostre donne ancora in ostaggio. Perché in Italia Non una di meno non ha detto nulla?”
Quanto ci vorrà per conoscere l’entità esatta di quanto accaduto quel giorno?
“Non possiamo sapere quante vittime di violenze ci sono state, sono ancora sotto shock, hanno subito perdite di amici e congiunti, anch’io nel primo mese dopo il 7 ottobre sono stata a 4 funerali, anche di una mia ex studentessa bruciata nella sua casa nel kibbutz con il marito. Non è rimasto praticamente nulla da seppellire. Tutta la società israeliana è stata coinvolta con lutti molto gravi. Un altro studente, che è sopravissuto, ha perso gli amici e non puo' ancora tornare al suo kibbutz, distrutto dai terroristi.
Prima che di se stessi, di parlare di quanto subito, hanno dovuto occuparsi delle campagne per liberare gli ostaggi, e anche le ragazze che si sono rivolte ai centri di cura per le vittime di violenza sessuale non possono ancora raccontare”.