AGI - “In America ho trovato lo stesso calore che avevo lasciato in Italia”. Quando Matteo Garrone finisce l’ennesima presentazione di questo suo tour americano, è stanco, non ha neanche trovato il tempo di passare in albergo per cambiarsi, ma alla fine è soddisfatto: ha buone sensazioni, è stato a San Francisco, è arrivato a New York, ha partecipato a conference call, presentazioni, incontri, per promuovere “Io capitano”, il film italiano che punta a una nomination agli Oscar e che intanto ha portato a Venezia al Leone d’argento per la regia e al premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista, Seydou Sarr.
“Io capitano” è la storia di due ragazzi senegalesi che attraversano il deserto e sopravvivono in un centro di detenzione in Libia pur di coronare il loro sogno: attraversare il Mediterraneo e andare in Europa, alla ricerca di una nuova vita.
Garrone incontra il pubblico al Consolato generale d’Italia, a Park Avenue, insieme agli attori principali e a uno dei migranti africani che ha ispirato la storia, Kouassi Pli Adama Mamadou. Poi lo attenderà la serata della proiezione newyorkese, organizzata da “Italy on screen Today” al Robin Williams Center, dove il film riceverà una nuova standing ovation.
A chi nutriva dubbi sull’impatto che questo film potesse avere sul pubblico newyorkese, bastano gli applausi finali a tutti, dal regista agli attori. Oltre a Seydou è presente Moustapha Fall, nella parte del cugino del protagonista. "Il film - spiega all’Agi il regista - arriva qui perché racconta di chi parte alla ricerca di una terra promessa, chi insegue un sogno e perché è un tema globale, che riguarda anche questo Paese”.
“In America - aveva detto poco prima - ho ritrovato lo stesso calore che avevo lasciato in Italia. Siamo felici di vedere che questo film affronta temi universali, degli archetipi, e arriva un po’ ovunque. Eravamo certi che potesse dare al pubblico la possibilità di vedere il fenomeno della migrazione da una prospettiva diversa, e di riflettere sul fatto che dietro questi numeri ci sono persone, spesso ragazzi che hanno gli stessi desideri che abbiamo avuto noi e avranno i nostri figli". Non tutti i migranti, spiega il regista, scelgono di mettersi in viaggio per sfuggire a una guerra.
“E’ il sogno del viaggio che fa parte della natura dell'essere umano”, aggiunge. A chi sostiene che questo film piacerà solo a chi è già sensibile al tema immigrazione, Garrone risponde quasi seccato: “Il film ha fatto ottocentomila spettatori ed è il quarto incasso dell’anno - ribatte - non sappiamo con certezza, a meno che non li conoscete tutti voi gli spettatori, che sono andati soltanto quelli sensibili al tema”.
“Non bisogna sottavalutare una cosa fondamentale - aggiunge - il film ha prenotazioni in tutte le scuole d’Italia. Io sono andato in molte scuole, anche al nord, e quando chiedo 'chi di voi ha già visto il film?', su cinquecento alzano la mano in cinque, perché quel target lì non va a meno che non c’è la famiglia che ce lo porta”. “Beh - continua - quei 495 giovani sono importanti per il nostro Paese perché sono il futuro, vedranno il film e potranno rendersi conto che dietro quei numeri, dietro quelle cose che vedono nei telegiornali ci sono ragazzi come loro. Hanno un cambio di prospettiva. Anche se non avesse fatto questi numeri di spettatori, solo per questo il film avrebbe avuto ragione di esistere”. Garrone non ha mai pensato di cambiare il finale. “Semmai - rivela - ho pensato in un primo momento di mettere la scena in carcere, come è successo nella vita reale. Siamo stati a discutere se allungare il finale al carcere, ma poi abbiamo scelto di fermarci prima”.
Quello che interessava era raccontare il viaggio dell’eroe, l’impresa epica resa plasticamente dalla scena nel deserto, in cui gli esseri umani sono piccoli punti in mezzo alla vastità del mondo. “Ma non dobbiamo dimenticare che questa è una storia realmente accaduta - sottolinea - Il ragazzo a cui ci siamo ispirati è finito in carcere, ora vive in Belgio, è riuscito a salvare 250 persone, è riuscito a farcela”.
Duecentocinquanta è anche il numero degli spettatori che la sala newyorkese può contenere, ma è una coincidenza, non una simbologia voluta, anche se indica quanto faccia la differenza nascere nella parte giusta del mondo. L’idea di aver proposto un finale che possa rendere meno impossibile la traversata, non lo convince.
“Le cose sono andate davvero così - spiega il regista - perché non dare al protagonista questo merito? Noi sappiamo bene che c’è la morte, lo diciamo in molti momenti del film, però anche raccontare chi ci è riuscito è importante, raccontare la storia di chi è riuscito a lottare per la vita e a farcela”.
Avere presente la tragedia, ma celebrare la vita. Per rendere più genuina la prova attoriale dei due giovani protagonisti, Garrone il suo staff hanno pensato di non far leggere loro tutta la sceneggiatura, ma di lasciare che i due ragazzi la scoprissero giorno per giorno, in modo cronologico, come avviene per migliaia di migranti. Ogni giorno può essere l’ultimo, o il primo di una nuova vita.
I due attori ne escono alla grande. Il film, uscito a settembre, costato undici milioni, prodotto da un pool di cui fa parte Rai Cinema, ha prenotazioni nelle scuole fino alla fine di marzo. Il prossimo anno verrà distribuito in venti Paesi africani, e uscirà negli Stati Uniti, sperando nella nomination e puntando sul fatto che a Hollywood, soprattutto in questo momento storico, il tema dei migranti sta molto a cuore.
Una delle scene più drammatiche del film “Io capitano”, di Matteo Garrone, è stata girata nel deserto ed è anche quella in cui l’attore protagonista, Seydou Sarr, ha provato più difficoltà. “Quando quella donna muore tra le mie braccia - ha raccontato nell’incontro a New York, commuovendosi - è stato un momento difficile, perché è così che è morto mio padre”.