AGI - Alle 11:03 di sabato 7 ottobre 2023, mentre gli occhi del mondo sono su Israele invaso dai miliziani di Hamas, un sisma di magnitudo 6.3 colpisce la provincia di Herat, tra le aree più densamente popolate dell'Afghanistan. Le scosse di assestamento proseguono per i giorni successivi fino all'11 ottobre, quando si verifica un altro terremoto di magnitudo 6.3. La terra continua a tremare per quasi una settimana, un incubo che non sembra finire mai per una popolazione stremata da un conflitto ventennale e da un'economia devastata, complici sanzioni che contribuiscono a esacerbare quella che il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha definito "la crisi umanitaria più grande del mondo".
Il sisma lascia provoca la morte di almeno 1.500 persone, gravi danni infrastrutturali e la distruzione di centinaia di abitazioni. Una tragedia nella tragedia, quella di una nazione impoverita che, pur godendo di un miglioramento della situazione della sicurezza a due anni dal ritorno dei talebani al potere, vede 6 milioni di persone a rischio carestia e 29 milioni dipendenti dagli aiuti umanitari per la loro sopravvivenza. Con istituzioni non in grado di provvedere da sole alle necessità dei cittadini, il ruolo delle organizzazioni internazionali è fondamentale per salvare gli afghani dall'indigenza. A descriverci una situazione che non sembra avere prospettive immediate di miglioramento è Stefano Sozza, direttore del programma di Emergency in Afghanistan.
A differenza del sisma del giugno 2022, il terremoto del 7 ottobre 2023 non ha colpito aree remote ma un importante centro urbano come Herat. C'è stata quindi una maggiore capacità da parte delle istituzioni di venire in soccorso alla popolazione?
Sicuramente sono due episodi molto diversi. Il sisma del giugno 2022 nelle province di Khost e Paktika aveva colpito zone remote, dove i primi presidi clinici nelle vicinanze dell’epicentro erano di Emergency o altri a diverse ore di distanza. Questa volta, vicino a un centro urbano come Herat, le strutture sono state in grado di dare una prima risposta efficace, anche grazie al coordinamento tra i vari attori umanitari. Nella zona di Paktika non erano presenti strutture sanitarie o civili di grandi dimensioni e in quel caso ci sono state conseguenze enormi in termini di morti e feriti ma un danno sul territorio limitato. A Herat, con una densità di popolazione maggiore, c’è stato un maggior numero di abitazioni distrutte e la priorità nella risposta umanitaria è stata la ricostruzione di luoghi dove trascorrere l’inverno per le famiglie che hanno perso casa. Va comunque menzionato che, anche quando l’epicentro di un sisma non è localizzato in una zona particolarmente remota e difficilmente accessibile, in un contesto come quello afghano a oggi non c’è un governo che riesca a dare una risposta della portata sufficiente ed è quindi assolutamente necessario l’intervento delle organizzazioni umanitarie.
È possibile, a un mese di distanza dal terremoto, fornire una stima affidabile delle vittime e dei danni materiali?
Dai dati che abbiamo oggi risulta che le persone coinvolte nelle diverse scosse sono oltre 43 mila e risiedono in distretti dove quasi il 23% della popolazione è composta da bambini di età inferiore ai 5 anni. I morti sono almeno 1.500 e i feriti più di 2.100. Avere dati affidabili non è facile e ci si affida a numeri consegnati dalle autorità locali che poi vengono triangolati e incrociati con le informazioni fornite dalle organizzazioni internazionali. Non esistendo un’anagrafe, è difficile capire chi manca e dove e ci sono differenze pari anche a centinaia di unità. È quindi plausibile che i morti siano più di duemila nella dinamica attuale. Per quanta riguarda i danni materiali, dopo la valutazione fatta dalle organizzazioni internazionali, complessivamente 40 strutture sanitarie sono state danneggiate nella città di Herat e nei distretti circostanti, tra cui 35 strutture di assistenza sanitaria di base e 5 ospedali. Migliaia di abitazioni sono andate distrutte nelle aree rurali, dove vengono costruite col fango, e si registrano danni alle infrastrutture pubbliche come la rete idrica.
Come è cambiata la situazione sanitaria in Afghanistan con il consolidamento al potere dei talebani?
Il settore sanitario afghano era molto fragile anche prima. Sicuramente il mutato contesto ha portato una nuova valutazione dei bisogni clinici e medici e lo abbiamo fatto anche noi come Emergency, alla luce dei pazienti che arrivano. Abbiamo rivisto e ridefinito i criteri di ammissione segnando il passaggio tra una chirurgia di guerra che prima riguardava la quasi totalità dei ricoveri alla traumatologia civile. A oltre due anni dalla presa del potere da parte dei talebani, avvenuta il 15 agosto 2021, arrivano soprattutto vittime di incidenti stradali, domestici o sul lavoro, persone cadute dall’alto e in generale traumi civili. Continuano comunque ad arrivare pazienti con ferite da arma da fuoco o da taglio dovute a una criminalità in aumento che è strettamente correlata all’impoverimento della società ma anche persone colpite da mine o da ordigni improvvisati. Il Paese sta ancora soffrendo le conseguenze di una crisi ventennale, per quanto il contesto sia cambiato notevolmente. Noi registriamo un rilevante miglioramento delle condizioni di sicurezza e di accessibilità nei movimenti nel Paese ma a ciò non corrisponde un miglioramento della situazione umanitaria ed economica. Sono 29 milioni gli afghani che hanno bisogno di aiuti umanitari e in oltre 12 milioni hanno bisogno di assistenza sanitaria, e oltre il 40% di costoro sono bambini.
Come si è evoluta la situazione della sicurezza in questi due anni?
Per tutto il 2022 ci sono stati scontri armati, soprattutto nel Panshir, dove poi la sicurezza è migliorata, nonché attacchi terroristici rivendicati per lo più dallo Stato Islamico nel Khorasan. Nel nostro ospedale di Kabul di recente è aumentato l’afflusso di vittime di esplosioni, in particolare appartenenti alla minoranza Azhara. Martedì scorso abbiamo dovuto ammettere 11 persone dopo l’esplosione di un minivan al termine della giornata lavorativa. Speriamo non inizi una nuova fase di violenza.
Quindi si può parlare di un miglioramento generale delle condizioni?
Non c’è più un conflitto attivo, non ci sono due formazioni che combattono su diversi fronti e si riduce molto l’esposizione a una possibile violenza. Chiaramente è nella capitale Kabul dove si giocano gli equilibri politici legati alla sicurezza, il cui miglioramento generale non corrisponde a una stabilità nel Paese. I gruppi di opposizione e l’Isis in Khorasan hanno come obiettivo screditare agli occhi dei media e dei paesi esterni l’attuale governo dell’emirato, che ha sempre proclamato come obiettivo riportare la sicurezza nel Paese. Dopo il 2021 c’è stata una fase di assestamento seguita da un miglioramento. Dall’aprile 2023 la situazione è molto tranquilla. Continueremo a monitorare per capire come si evolverà il contesto.
Come è cambiata l’azione di Emergency con il mutare del contesto?
Come sempre noi cerchiamo di rispondere a bisogni contingenti in un contesto volatile come quello afghano. Siamo presenti nel Paese dal ’99 e in tutte queste fasi siamo sempre riusciti a riadattare la nostra attività sulla base del bisogno principale. Nell’attuale fase di transizione stiamo gestendo sempre più traumi civili anche in chirurgia elettiva, con un grande impegno relativo al capacity building e alla formazione. Anche per questo i nostri principali ospedali – nelle province di Panshir, Kabul e Helmand – sono centri di formazione riconosciuti dal ministero della Salute. Alcuni dei dottori che formiamo resteranno nei nostri ospedali, altri andranno in ospedali pubblici per trasmettere l’esperienza acquisita in 5 anni lavorando fianco a fianco con medici di esperienza internazionale. Ci stiamo sempre più muovendo verso l’ortopedia per arrivare a interventi elettivi e programmati come le ernie, non per forza legati a traumi o alla chirurgia di guerra. Lavoriamo anche sul fronte postoperatorio per facilitare il recupero del paziente e abbiamo anestesisti internazionali che formano anestesisti afghani. La finalità è riuscire ad avere la totalità del trattamento.
Qual è stato l’impatto del terremoto su una crisi umanitaria già grave?
Ci sono stati danni e distruzioni a livello infrastrutturale e la popolazione afghana non ha la disponibilità economica per contribuire alla ricostruzione. La serie di terremoti di Herat ha causato molte vittime ma sono situazioni che non hanno un impatto a livello di lungo termine in quanto l’Afghanistan è un Paese già in ginocchio, quindi fa poca differenza. È un problema che si aggiunge ad altri problemi: c’è una crisi economica che porta disoccupazione e impoverimento, una crisi totalizzante e trasversale a discapito di una società civile in stato di totale indigenza. Gli effetti del terremoto si sommano a un’inflazione altissima, ai rincari dei beni primari, al rischio di carestia per 6 milioni di afghani. Nella zona occidentale, dove c’è la città di Herat, ci sono cluster dove il 97% della popolazione è sotto la soglia di povertà. E in seguito agli ultimi decreti c’è stata la quasi totale esclusione di metà della popolazione dalla vita pubblica. A questo va aggiunto che l’Afghanistan dall’anno prossimo non sarà più considerata una crisi prioritaria. Fatti salvi eventi come il terremoto, c’è sempre il rischio di dimenticare quella che è stata definita dal Segretario Generale delle Nazioni Unite come la crisi umanitaria più grande del mondo. Il futuro non è particolarmente roseo.