L’attacco a sorpresa di Hamas contro le città israeliane al confine con la Striscia di Gaza, la mattina di sabato 7 ottobre, insieme alla successiva reazione militare di Israele, ha provocato una notevole ondata di disinformazione su tutte le principali piattaforme di social media.
“Le narrative diffuse e le tecniche usate sono molto simili a quelle che abbiamo già visto con la guerra in Ucraina”, racconta all’AGI, in un’intervista telefonica da Firenze, Paula Gori, 38 anni, segretaria generale dello European Digital Media Observatory (Edmo), l’osservatorio indipendente finanziato dalla Commissione europea, che si occupa di monitorare e contrastare la disinformazione nei Paesi membri su diverse tematiche: dal cambiamento climatico, al Covid, passando per migranti e guerre.
Edmo raccoglie ricercatori, fact-checker, esperti di alfabetizzazione digitale e del settore dei media con l’idea di avere un approccio collettivo e multidisciplinare per affrontare un fenomeno sempre più in crescita.
“Molti sono giustamente preoccupati da quello che può generare l’Intelligenza artificiale, ma in realtà i diffusori di disinformazione usano ancora delle tecniche molto banali”, spiega Gori, a capo di Edmo da quando è stato istituito nel giugno 2020: dati manipolati sulla quantità di supporto militare fornito alle parti in guerra; foto e video usati fuori contesto (“circola un video di ragazzi che corronoevano in un campo e si diceva fossero sotto attacco di Hamas, ma sono giovani che correvano per andare al concerto di Bruno Mars tre giorni prima”); immagini manipolate (“come eravamo pieni di foto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky con la svastica, ora circolano quelle di personaggi famosi, come Cristiano Ronaldo, con la bandiera della Palestina”).
Il team internazionale di analisti di NewsGuard, che fa parte del network di Idmo, hub italiano di Edmo, ha identificato almeno 21 narrazioni false nelle prime tre settimane della guerra in Medio Oriente che si sono diffuse su X (ex Twitter), TikTok, Facebook, Instagram e sui siti di notizie: “L’Ucraina ha venduto ad Hamas armi donate dall’Occidente” e un documento della Casa Bianca secondo cui “gli Stati Uniti stanno inviando 8 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele” sono solo due degli esempi rilevati.
“Associare a un conflitto immagini sbagliate”, fa notare Gori, “non è solo fuorviante, ma crea anche un problema di memoria storica: dobbiamo attribuire immagini giuste al conflitto giusto, alcune strategie di disinformazione mirano proprio a gettarci in confusione, a farci credere a tutto e a niente”.
Costituito da una piattaforma centrale fatta da un consorzio di più attori, di cui il leader è l’Istituto universitario europeo, Edmo non ha il compito di segnalare account che diffondono disinformazione. Studia, invece, come le piattaforme moderano i loro contenuti. “Il dialogo con le piattaforme online è ovviamente incluso nella nostra missione”, racconta la segretaria generale “Edmo è anche membro della task force permanente del Code of Practice on Disinformation che al momento è lo strumento auto-regolatorio adottato dalle piattaforme su invito della Commissione”.
L’osservatorio di Edmo, come altre realtà a livello internazionale, ha segnalato le criticità delle nuove policy di X (ex Twitter), “diventato tra i principali canali dove viene veicolata disinformazione”, conferma Gori. La società di Elon Musk non solo si è sfilata dal codice di autoregolamentazione nella Ue, ma mettendo a pagamento la spunta blu degli account ha creato confusione negli utenti sull’attendibilità di un profilo.
“Per contrastare la disinformazione l’approccio deve essere multidisciplinare”, spiega la segretaria generale di Edmo, “perché si può usare la regolamentazione ma non troppo, altrimenti si rischia di violare i diritti fondamentali quali la libertà di informazione o espressione”. “Uno dei modi migliori per arginare la disinformazione è comprenderla al meglio possibile e per comprenderla, tra le tante cose, è importante accedere ai dati delle piattaforme come Meta, TikTok, Google e X”.
Su questo Edmo sta facendo da apripista per istituire un ente indipendente che possa fare da intermediario per l’accesso ai dati personali, raccolti dalle piattaforme online. “L’accesso per motivi di ricerca e nel rispetto delle regole di protezione dei dati personali è anche previsto dal Code of Practice on Disinformation e dal nuovo regolamento Digital Services Act (Dsa)”, assicura la segretaria generale dell’osservatorio.
“Sembra una cosa molto tecnica, ma è fondamentale: quando riusciremo ad avere accesso a questi dati riusciremo finalmente ad avere una comprensione completa di come funzionano davvero i meccanismi di disinformazione online. Se, mettiamo caso, per ipotesi, scoprissimo che la disinformazione sul cambiamento climatico è diffusa soprattutto da uomini bianchi tra i 40 e i 50 e che vivono in periferia e non laureati, sarebbe poi più semplice, anche a livello sociologico, capire come mai e poi poter offrire strumenti educativi”.
Come successo anche in passato, col focus della disinformazione spostatosi sul conflitto in Medio Oriente è diminuita anche la disinformazione sulla guerra in Ucraina. “Quando esplode una crisi siamo tutti in cerca di più informazioni, ma siamo anche tutti più irrazionali, perché siamo spaventati. Aumenta la domanda di notizie, ma allo stesso tempo la buona informazione verificata ci mette un po’ più di tempo a uscire, soprattutto se si tratta di un conflitto come quello tra Israele e Hamas; questo è esattamente il terreno fertile su cui prolifica la disinformazione”, denuncia Gori. “Considerato che sono le emozioni a farla circolare e che tutti gli studi ci dicono che se sei arrabbiato sei più irrazionale online, in questo contesto è facile rilanciare disinformazione che di solito capitalizza sulle emozioni e sulla rabbia”.
La soluzione per far fronte il fenomeno, secondo l’esperta, è costituita da diverse accortezze, conclude la segretaria generale di Edmo: “Una alfabetizzazione digitale non solo nelle scuole, ma in tutte le fasce di età; una maggiora consapevolezza di come funziona la disinformazione e quindi di come proteggerci per non essere ingannati e poi usare la stessa strategia comunicativa. Le immagini rimangono più impresse nel cervello che un testo lungo e dettagliato e non a caso chi diffonde disinformazione tende a farlo sempre più con le immagini. Per questo l’informazione, soprattutto durante le crisi, dovrebbe essere più grafica rispetto a un testo lunghissimo che non viene facilmente memorizzato”.