AGI - Erano le enormi file di auto in uscita ad annunciare l'ingresso nella città di Antakya all'indomani del terribile terremoto che ha devastato il sud della Turchia. A distanza di quasi sette mesi non sono piu' le code di automobili, ma i tantissimi tir carichi di macerie a lasciare a bocca aperta quando si è ormai alle porte di una delle città più antiche dell'Occidente, Antiochia, ora Antakya.
Sono giorni diversi da quelli che hanno seguito il sisma di magnitudo 7.8 di febbraio.
Le giornate di Antakya, la città più colpita, non sono più caratterizzate dalla frenetica ricerca dei dispersi e dall'estrazione delle vittime. Il centro storico della città è irriconoscibile agli occhi di chi, come il sottoscritto, si vantava di conoscerlo bene.
Più ci si avvicina alla parte antica più ci si ritrova in una città fantasma. Tra i sopravvissuti pochissimi sono rimasti a vivere nell'antico centro storico dove sono mezzi pesanti e pale meccaniche il principale, triste, segno di vita. La rimozione delle macerie va infatti avanti e tonnellate di cemento vengono ammassate a formare enormi cumuli fuori dalla città. Il ferro viene recuperato e intrecciato in enormi masse che vengono trasportate poi da tir enormi.
"Non posso neanche mettere frutta e verdura fuori, mi si riempiono di polvere in 1 minuto", dice ad Agi Mehmet, un commerciante che ha deciso di restare. "Siamo in tenda da 7 mesi, io e la mia famiglia. La casa ha subito danni ma è rimasta in piedi, la utilizziamo ma non ci dormiamo", racconta mentre un bambino passa in bici a fianco a un panificio crollato in cui sono ben visibili il forno e i resti di un'attività che non c'è più.
Mentre in altre città duramente colpite, come Adiyaman e Kahramanmaras, tanta gente ha scelto di rimanere e ha ripreso a dar vita a centri che erano stati distrutti, da qui in molti sono andati via e sui muri riamasti in piedi sono comparse numerose scritte che promettono: "ritorneremo".
Il dramma e la forza dei rimasti sono rappresentati dalle lunghe file per l'acqua che questa gente deve affrontare ogni giorno, spesso più di una volta. Le tubature danneggiate non sono state ripulite e con le temperature abbondantemente superiori ai 30 gradi l'attesa spesso non è ripagata.
"Sono stato in fila un'ora per 5 litri d'acqua. Tra 3 ore sarò costretto a tornare", spiega un uomo che si allontana con una damigiana. Enormi palazzi abbandonati e pericolanti fiancheggiano le strade in attesa di demolizione. Un hotel in cui avevo alloggiato varie volte giace inclinato e le tende sventolano fuori da alcune finestre aperte, come nella locandina di un film horror.
Le bellezze archeologiche e gli splendidi mosaici della città non sono ancora visibili perché il sisma, nonostante il ministero della Cultura abbia sminuito, ha colpito duramente anche gli splendidi musei cittadini, dove sono esposti enormi mosaici di epoca romana, bizantina ed ellenistica.
Un problema che blocca la rinascita di una città che da sempre rappresentava una meta per turisti di tutto il mondo e che è destinato a durare per almeno un altro anno, quando è prevista la riapertura dell'aeroporto.
"Per noi non c'è lavoro" mi dice un tassista di nome Ali mentre mi mostra le onde di cemento della strada che porta verso l'aeroporto formatesi proprio la notte del sisma. "Certe volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio morire quella notte, magari nel sonno, piuttosto che continuare a sopportare tutto questo", dice sconsolato.
Antakya, che ai tempi dell'impero romano era una delle tre città a poter vantare un'illuminazione notturna insieme a Efeso e Roma è ora colpita da frequenti blackout, sopratutto in centro.
"Per due mesi l'unica illuminazione erano il fuoco e le torce, sembrava di essere tornati a due mila anni fa", mi racconta Gokhan che fa il barbiere e ora si reca dai clienti perché il negozio è distrutto. Nonostante il centro storico sia stato del tutto abbandonato in centinaia di migliaia vivono in container o nelle tende. Per chi ha avuto la casa "poco danneggiata" non è prevista l'assegnazione di un container e ci si deve accontentare della tenda.
E proprio in una di queste vengo ospitato dalla famiglia di un amico. La sera si arrostisce la carne, si beve il the e si chiacchiera. La loro curiosità è sopratutto per i terremoti che hanno colpito l'Italia, di cui sapevano poco. Racconto loro de l'Aquila, dei bambini di San Giuliano e delle 37 mila vittime della Marsica nel 1915. Anche se la loro casa è in piedi hanno paura a dormirci. "Pensa a un pugile che ha subito dei pugni fortissimi. Arriva a un punto che per buttarlo giù non lo devi colpire più tanto forte. Le nostre case sono così", mi spiega Adem, dipendente dell'aeroporto che in questi mesi si arrangia con un sussidio minimo che percepisce dallo stato.
A questo si aggiunge il dramma dei bambini. Traumatizzati da quella tremenda notte e spesso vittime di incubi e disturbi dell'attenzione. "Mia figlia di otto anni prima si svegliava di continuo, non riusciva a dormire, urlava, faceva incubi e poi scoppiava in lacrime. Ora va un po' meglio, ma vorremmo portarla da uno specialista" spiega ad Agi Ersin, in visita dai parenti della moglie. Originario di Gaziantep, è tornato a vivere nella propria città natia dopo il sisma.
Difficile se non impossibile in questo momento parlare di ricostruzione. Sebbene i cantieri fuori città siano numerosi e i gli scheletri dei primi nuovi palazzi già ben visibili Antakya aspetta ancora che le macerie vengano rimosse e i palazzi pericolanti abbattuti.
Per la provincia di Hatay, dove si trova Antakya, il governo turco ha stanziato fino a ora 370 milioni di euro, affidati alla Toki, azienda edilizia del Ministero dell'Ambiente e da sempre uno dei pilastri del potere del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Proprio i palazzi della Toki sono stati i più resistenti alle scosse e hanno contribuito al successo del presidente turco, che ha ottenuto percentuali altissime nelle elezioni dello scorso maggio nelle 11 province terremotate.
Ora però Antakya chiede altro. L'emergenza è destinata a durare anni e la gente ha bisogno di assistenza nei piccoli aspetti che compongono una quotidianità che va ricostruita pezzo per pezzo. Acqua, elettricità, container, la rimozione delle macerie che ponga fine all'invasione di polvere, la riapertura dei musei e dell'aeroporto; tutti piccoli passi avanti, segnali di speranza verso il ritorno a una normalità, seppur nella consapevolezza che la vita dopo il 6 febbraio 2023 va avanti, ma non sarà mai più la stessa.